Isabella Bossi Fedrigotti
Rovereto, 3 marzo 1948 - vivente
La storia di Isabella Bossi Fedrigotti inizia con le radici profonde della sua famiglia, i Bossi Fedrigotti, le cui origini risalgono al Quattrocento. Provenienti dalla Lombardia, i Bossi Fedrigotti si stabiliscono a Sacco, un borgo affacciato sull'Adige nei pressi di Rovereto, in provincia di Trento. Nel corso dei secoli la famiglia prospera, diversificando le sue attività con la coltivazione del tabacco e la produzione di vini. Queste radici familiari si sono fuse con la storia del luogo, influenzando profondamente la vita di Isabella.
L'infanzia di Isabella è intessuta di ricordi legati all’antica dimora della famiglia Bossi Fedrigotti di Borgo Sacco, vicino a Rovereto. Cresciuta insieme alla sorella Maria Josè (1951) e ai fratelli Gianpaolo (1944-2017) e Maurizio (1946), Isabella ha vissuto in un ambiente ricco di tradizioni e storia. Il padre, il conte Federico (1906-1996), appassionato produttore di vini pregiati, e la madre, la contessa Maria van der Straten Ponthoz (1916-2006), sono figure centrali nella vita di Isabella.
Dopo aver frequentato le scuole dell'obbligo e le scuole superiori a Rovereto, Isabella prosegue gli studi universitari a Milano. La sua decisione di iscriversi alla Facoltà di Lingue dell'Università di Milano segna l'inizio del percorso verso la scrittura e il giornalismo.
Il debutto letterario avviene nel 1980 con Amore mio, uccidi Garibaldi (Longanesi), un romanzo di ambientazione risorgimentale basato sulla corrispondenza della principessa boema Leopoldina Lobkowitz (1835-1892) e del marito Fedrigo Bossi Fedrigotti (1834-1902). Questo libro segna l'inizio di una carriera letteraria di successo, con opere che esplorano le dinamiche familiari come Casa di Guerra (1981, Longanesi) e Diario di una Dama di corte (1984, Longanesi).
Il culmine arriva nel 1991 con Di buona famiglia (Longanesi), vincitore del Premio Campiello, seguito da un adattamento teatrale nel 2006 (adattamento teatrale di Leonardo Franchini, regia di Cristina Pezzoli, con Anna Maria Guarnieri e Magda Mercatali). Nel 1994 Isabella partecipa alla scrittura del libro Mi riguarda (Edizione e/o), che raccoglie le testimonianze di nove esponenti della cultura italiana (Isabella Bossi Fedrigotti, Giulio Cattaneo, Giovanna Cau, Giancarlo De Cataldo, Ennio De Concini, Ennio Flaiano, Carla Gallo Barbisio, Giuseppe Pontiggia e Clara Sereni) sul loro rapporto con figli o nipoti con disabilità.
La sua produzione comprende inoltre raccolte di racconti, come il vivace Il catalogo delle amiche (1998, Bur), che esplora il mondo femminile e anticipa la recente incursione nel misterioso mondo maschile con Tutti i miei uomini (2021, Longanesi).
Nel 2005 Isabella Bossi Fedrigotti pubblica Se la casa è vuota (Longanesi), affrontando il delicato tema della solitudine degli adolescenti e suscitando grande interesse tra gli educatori. Isabella diventa un volto noto in numerose scuole italiane e convegni, contribuendo attivamente a dibattiti sulla società contemporanea. Gli anni successivi vedono la pubblicazione di altre opere di indagine di costume come I vestiti delle donne (2012, Barbera) e Organza arancione (2014, Barney) o autobiografiche come Quando il mondo era in ordine (2015). Nel 2019 le è stato conferito il Premio della Fondazione Campiello alla carriera.
Oltre alle opere letterarie, Isabella si distingue anche come giornalista, contribuendo con articoli e editoriali al «Corriere della Sera» e al «Corriere del Trentino». È proprio grazie a questa esperienza che Isabella conosce il collega Ettore Botti (1948-2004), che diventa suo compagno di vita. Dal loro matrimonio nascono i figli Eduardo (1984) e Vittorio (1983). Come giornalista, la sua penna acuta affronta questioni che spaziano dalla bellezza e armonia dei territori all'importanza della convivenza tra persone e popoli diversi.
Ma la sua vita non si limita alla scrittura. Isabella è anche imprenditrice vinicola, produttrice di vini pregiati insieme alla sorella Maria Josè. L'Azienda Vitivinicola Bossi Fedrigotti, con il sostegno tecnico dell'Azienda Masi di Valpolicella, porta avanti la tradizione vinicola della famiglia, con il prestigioso Fojaneghe a testimoniarne il successo.
La dedizione al territorio, la partecipazione attiva in varie associazioni e l’impegno come volontaria rivelano un lato di Isabella orientato verso il benessere comune. Nel 2010, riceve il premio "Donne e vino" (Premio enologico delle Terre Sicane) per il suo costante impegno nel promuovere la figura femminile nella letteratura e nell'impresa, contribuendo allo sviluppo e alla promozione del territorio sotto molteplici aspetti.
La vita di Isabella Bossi Fedrigotti è un affascinante intreccio di radici familiari, infanzia permeata di tradizioni, successi letterari e impegno nel mondo vinicolo e civile. La capacità di equilibrare, nelle narrazioni, leggerezza e profondità, e la dedizione al territorio rivelano un legame indissolubile tra passato e presente, creando un impatto duraturo nella letteratura e nella vita della comunità.
*voce a cura di Benedetta Bellarte - Laureata in “Scienze e Tecniche di Psicologia cognitiva” presso l’Università degli Studi di Trento, frequenta ora il corso di laurea Magistrale in “Psicologia” nello stesso Ateneo.
Partecipa al gruppo SCRIBUNT: gruppo di Scrittura di Biografie - Università di Trento (referenti: Maria Barbone, Susanna Pedrotti, Lucia Rodler).
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Isabella Bossi Fedrigotti
Del Prato, G. S. (1992). Isabella Bossi Fedrigotti: scrittrice trentina. Atti dell'Accademia roveretana degli Agiati. A, Classe di scienze umane, lettere ed arti, 2, 199-208.
Sega, C., Filosi, R. (2016). L’archivio Bossi Fedrigotti: uno sguardo sugli “affari di famiglia”. Studi trentini. Storia. Trento: società di studi trentini di scienze storiche, 95 (2), 449-456.
Happacher, L. (Regista), Moser, M. (Regista), (2019). Le carte raccontano: l’archivio dei bossi Fedrigotti di Sacco, Vallagarina. [DVD (26’) color., son., 12 cm]. Trento: Wasabi. Biblioteca civica, Rovereto.
SSR Svizzera italiana CORSI (2015), Incontro con Isabella Bossi Fedrigotti negli studi RSI. https://youtu.be/YlCzrk_NKec?si=YigwJGIg_sETSE2i
Sacchiero Ballotta, C. M., (2022), Una serata con la scrittrice Isabella Bossi Fedrigotti. Inner Wheel Club di Rovereto, 8, 17-22.
Ester Sordato
Coco Chanel
Samur, 1883 – Parigi, 1971
Visionaria, emancipata, avanguardista; e poi ancora istintiva, mecenate, libera: così il sito ufficiale di Chanel descrive la propria fondatrice.
Gabrielle Bonheur Chanel nasce il 19 agosto 1883, a Samur, in Francia. Vive un’infanzia molto difficile segnata dalla povertà, dalla precoce perdita della madre e dall’abbandono da parte del padre in un orfanotrofio. Trascorre l’adolescenza, fino alla maggiore età, in luoghi austeri come conventi e monasteri, ambienti che hanno avuto una forte influenza sullo stile sobrio, ma di classe, che caratterizza le creazioni di Coco Chanel.
Lei stessa, infatti, dichiara: “Prima di uscire guardati allo specchio e levati qualcosa”. Si tratta di una delle frasi più iconiche di Coco Chanel, che mette nero su bianco la sua firma d’autore, anzi, d’autrice, quella dell’eleganza nei piccoli dettagli e nella semplicità.
La giovane, appassionata di pittura, scultura, architettura e storia, non perde mai la voglia di imparare, scoprire, nutrirsi e nutrire la propria creatività attraverso l’arte. È amica e mecenate dell'avanguardia artistica e culturale parigina (Picasso, Djagilev, Cocteau, Colette, Stravinskij). Un’altra grande passione di Gabrielle è il canto. Si esibisce molto spesso in un cabaret frequentato per lo più da giovani aristocratici. Sono proprio loro a soprannominarla Coco, a causa della canzone che era solita cantare: Qui qu'a vu Coco.
Conosce in questo contesto il primo di una lunga serie di uomini, che influenzano lo stile e la vita di Coco. Étienne Balsan avvicina la giovane ragazza alla vita di città. I due si trasferiscono infatti a Royallieu, ambiente eclettico che introduce Coco nel mondo dell’equitazione. Nasce allora la necessità della giovane stilista di rivoluzionare il modo di vestire delle donne dell’epoca. Sontuoso e limitante, l’abbigliamento femminile rendeva impossibile lo svolgimento di qualsiasi attività quotidiana. Per Coco tutto questo significava solo una cosa: dipendenza della donna dagli uomini.
La storia d’amore con Balsan dura sei anni, al termine dei quali Coco va a Parigi a cercare fortuna. La passione per la moda e la volontà di rendersi economicamente indipendente la portano ad aprire un piccolo negozio di cappelli. Fondamentale in questo periodo è la figura di Arthur “Boy” Capel. Il giovane, intimo amico di Balsan, è l’unico a comprendere le straordinarie doti di Coco - intelligenza, unicità e sfrontatezza - e decide di credere in lei. I due, infatti, si mettono in società: il talento di Coco e l’abilità negli affari di Boy consentono l’apertura del primo negozio di Chanel, al numero 31 di Rue Cambon. I materiali utilizzati nelle creazioni, lo stile emancipato e rivoluzionario, permettono a Coco Chanel di crescere ed espandersi, tant’è che arriva ad occupare ben cinque edifici in quella via.
Gli affari iniziano ad andare molto bene quando anche a Parigi arriva la notizia dell’inizio della Prima guerra mondiale. La città diviene un territorio di guerra dove è impossibile abitare; infatti, tutti i civili non impegnati nel combattimento sono costretti a trasferirsi in campagna, compresa Chanel. Con determinazione Coco riesce a proseguire gli affari nonostante la guerra: le donne aristocratiche ormai senza servitù così come le donne lavoratrici hanno bisogno di abiti più semplici e più pratici. Chanel utilizza il Jersey, una stoffa a maglia rasata, molto elastica, che consente libertà e comodità; inoltre, il jersey è estremamente economico e quindi accessibile a tutti. Ritenuto inadatto alla sartoria, diventa di moda proprio quando Chanel lo usa per le sue creazioni.
Alla fine della guerra Coco vive un altro evento drammatico: la morte dell’amato Capel nel 1919. Si tratta di un altro abbandono, ma anche dell’occasione in cui Coco crea l’abito più fortunato: il tubino nero. Inizialmente Coco lo indossa per il lutto dell’amato; poi lo rende un indumento moderno, libero, sensuale e raffinato. Questo capo negli anni viene rivisitato da molti altri stilisti. Basti pensare al famosissimo little black dress indossato da Audrey Hepburn, nel film “Colazione da Tiffany”, disegnato da Hubert de Givenchy.
Una svolta per gli affari della maison Chanel è l’incontro con Ernest Beaux. L’uomo è un chimico conosciuto in tutta Europa perché utilizza le aldeidi, sostanze chimiche sintetiche che permettono al profumo di durare più a lungo. La collaborazione tra Chanel e Beaux dà vita al famoso Chanel No.5: un successo anche fuori dalla Francia. Chanel, infatti, è la prima designer ad associare il suo nome ad un profumo.
Dopo aver chiuso la casa di moda (all'apice del successo) allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Coco torna in scena a 71 anni, affrontando i critici impietosi delle riviste di moda - all'epoca innamorati di Dior - e i lazzi di chi la credeva ormai vecchia e finita. Ma trionfa, prima in America, poi di nuovo in Europa. Non ha mai smesso di combattere, regale e generosa, impetuosa e determinata.
Coco Chanel muore il 10 gennaio 1971 in una camera dell’Hotel Ritz, all’età di 87 anni.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
CHANEL, “Gabrielle Chanel, fondatrice di CHANEL | CHANEL”
https://www.chanel.com/it/about-chanel/la-fondatrice/
De la Haye, Amy. 2022, October 5. “Gabrielle (Coco) Chanel”. LoveToKnow.
https://womens-fashion.lovetoknow.com/fashion-designers/gabrielle-coco-chanel
Fiemeyer, Isabelle. 2008. Coco Chanel: un profumo di mistero. Castelvecchi.
Gidel, Henry. 2008. Coco Chanel: la biografia. Lindau.
Spirito, Sara. 2010. "With Lovers as Her Muse: How Men Influenced the Designs of Coco Chanel". Art & Art History Student Scholarship, 1.
https://digitalcommons.providence.edu/art_students/1
*voce a cura di Ester Sordato. Nata in provincia di Vicenza nel 1999. Frequenta il corso magistrale di psicologia clinica presso l’università degli studi di Trento. Appassionata di sport, ha praticato pallavolo per quasi dieci anni. Ama leggere e ascoltare musica. Partecipa al gruppo SCRIBUNT: (Gruppi di) Scrittura di Biografie – Università di Trento (referenti Maria Barbone; Susanna Pedrotti; Lucia Rodler).
Carolina Biasiotti
Cora Coralina
Goiás 1889 - Goiás 1985
Cora Coralina è il nome letterario che Ana Lins Dos Guimarães Peixoto Bretas sceglie per l'attività di poeta, considerata tra le più importanti del Brasile. È nata a Goiás, Brasile, il 20 Agosto 1889.
Già dall’infanzia cresce con il peso di una madre che desiderava un figlio maschio, e con l’impossibilità di studiare. Ma Cora non si ferma, e la passione per la lettura la incoraggia ad approfondire la cultura da autodidatta: si avvicina a diversi movimenti letterari locali, e legge continuamente giornali internazionali per rimanere in contatto con il mondo.
Persa nel mondo dei libri, si ritrova ancora nubile all’età di diciott'anni. Una vera e propria vergogna per la società dell’epoca. Lo scandalo arriva però due anni dopo, quando Ana Lins si innamora di Cantídio Tolentino, un avvocato di São Paulo già sposato nel suo paese. Le restrizioni morali e religiose dell’epoca costringono i due a lasciare il paese e a trasferirsi nello stato di São Paulo. Lì passa la maggior parte della vita, cresce sei figli, collabora con giornali locali, aiuta le forze armate nella Rivoluzione costituzionalista e difende la creazione di un partito femminista.
Ana Lins rimane un personaggio umile, sceglie una vita semplice nella piccola borghesia, sufficiente per dare un futuro diverso ai figli e mandarli a scuola. Fa la volontaria per un istituto di beneficenza, dove distribuisce cibo e cure mediche ai poveri; lavora in un negozio di tessuti; compra una fattoria dove coltiva rose, mais e cotone da vendere ad amici e vicini.
Grazie a queste esperienze incontra volti sempre nuovi e raccoglie in sé la storia di vita di ciascuno: diventa al tempo stesso una cuoca e una lavandaia, un contadino e una prostituta, una boscaiola e una donna della classe proletaria. Come scrive lei stessa nella poesia Todas as Vidas:
Tutto vive dentro di me:
nella mia vita,
la mera vita dell'oscuro (Coralina, 2020).
Nel 1956, vent’anni dopo la morte del marito, decide di tornare nella città natale. Tuttavia, il ritorno di Cora crea malcontento in una comunità conservatrice, ancora colpita dal “peccato” commesso da Cora in giovane età. Le persone l’avevano dimenticata e buttata via, come si fa con il sacco della spazzatura: così Cora si esprime nella poesia A Flor.
Nemmeno la diffidenza dei concittadini la ferma, e Cora inizia a sfornare dolci da vendere nella sua vecchia casa sul ponte. Si rende conto intanto di non aver ancora valorizzato le poesie scritte lungo il suo cammino. Decide quindi di seguire un corso di dattilografia, all’età di 70 anni. È la studentessa più anziana della scuola, ma anche simbolo di coraggio e tenacia per gli studenti più giovani.
La sorgente di scrittura per Cora è la sua piccola città natale: anima strade e vicoli, stretti e desolati; attraverso le mura, le chiese e i tetti della città esplora la natura dell’uomo, ansie e frustrazioni, desideri e aspirazioni. Così trasforma la sua "Minha Cidade" in uno specchio per la sua identità e per i cittadini che la abitano. Goiás diventa anche teatro di denunce e politiche sociali. Nelle sue poesie dà voce a una prostituta, che presenta come sua “sorella”; a un prigioniero, che chiama suo “fratello”. Difende queste vittime contro una società considerata apatica e pregiudicante. A fronte di questa povertà, Cora pone speranza nei bambini, che rappresentano il futuro e la possibilità di cambiamento: l’educazione è l’unico mezzo per salvare la nuova generazione dalle difficoltà presenti.
Riesce a pubblicare il primo libro all’età di settantasei anni. Ma il vero successo di Cora arriva dopo altri dodici anni, quando l’Università federale di Goiàs cura e pubblica i suoi lavori. Così, nel 1983 ottiene il titolo di Dottor Honoris Causa presso l’Università federale di Goiàs. Ancora oggi c’è la possibilità di vivere nei suoi stessi panni: il 10 agosto 1989, in occasione del centenario della nascita, la casa di Cora viene allestita per diventare il museo Casa Cora Coralina.
Ana Lins muore a Goiânia, il 10 aprile 1985, all'età di 96 anni. Cora Coralina, invece, vive ancora oggi nelle sue poesie, così come ha scritto nell’epitaffio:
Non morirà
Chi ha lasciato nella terra
La melodia del suo canto
Nella musica dei suoi versi (Coralina, 2020).
Fonti, risorse bibliografiche, siti
André, M. C., & Bueno, E. P. (2008). Latin American Women Writers: An Encyclopedia. Routledge.
Coralina, C. (2020). Melhores Poemas Cora Coralina (Portuguese Edition). Global Editora.
Denófrio, D.F., & Levitin, A. (2010). Cora Coralina: Who are you?Sirena: poesia, arte y critica, 1, 190-197. doi:10.1353/sir.0.023.
Rodrigues, O.S. (2021). The Intense Color Hue of Cora Coralina. Cadernos de Estudos Culturais, 191-203. doi: https://doi.org/10.55028/cesc.v1i25.15369
*voce a cura di Carolina Biasiotti. Nata a Modena nel 1999. Frequenta il corso Magistrale di “Psicologia Clinica” presso l’Università degli studi di Trento. Appassionata di teatro, ha studiato recitazione per cinque anni. Ama la natura: dall’arrampicata in montagna ai giri in barca a vela. Partecipa al gruppo SCRIBUNT: (Gruppi di) Scrittura di Biografie - Università di Trento (referenti Maria Barbone, Susanna Pedrotti, Lucia Rodler).
Mirela Mhilli
Dua Lipa
Londra 1995 - vivente
Dua Lipa è una delle popstar più amate degli anni dieci del Duemila. È un'artista dotata di grande carisma.
Nata a Londra, nel quartiere di Hampstead, il 22 agosto 1995, vive per diversi anni in Kosovo, il paese di origine della sua famiglia. Rimane nell'area balcanica fino all'età di circa quindici anni. Secondo Lipa, il Kosovo non le ha dato l'opportunità di partecipare al mercato mondiale della musica.
"Non volevo continuare a far musica in Kosovo, perché non immaginavo di poter attrarre un pubblico globale da lì. Fare qualche canzone e sperare per il meglio - che qualcuno mi ascolti e mi produca dal Kosovo - non sembra molto realistico", ha detto Lipa. "Penso che quel periodo della mia vita mi abbia davvero reso quello che sono ora, perché sapevo il motivo per cui ero a Londra e cosa stavo cercando". Così Lipa, decide di ritornare in Inghilterra, con l'aiuto di un'amica di famiglia, per seguire la sua passione, la musica, con la speranza che diventi il suo lavoro.
Dopo aver meritato fama internazionale grazie a Youtube, la cantante albanese è stata invitata dal «New York Times» per eseguire dal vivo alcune delle sue canzoni per i suoi follower. Un giornalista del noto magazine ha effettuato una diretta su Facebook, e sono state tante le domande per la ventunenne. Soprattutto le è stato chiesto di eseguire una canzone albanese: "Voglio davvero cantare in albanese. Ero molto emozionata quando ho cantato in Kosovo, nel paese dei miei genitori. Non so se realizzerò mai canzoni in lingua albanese, ma mi piacerebbe molto", ha detto in un’intervista. Inoltre, inizialmente anche il suo nome le provocava un forte disagio: Dua Lipa tradotto dall'albanese significa amore. Quindi, pensava di utilizzare un nome d'arte; solo in seguito si è convinta a tenere il suo vero nome, senza cambiarlo.
Prima di sfondare nel mondo della musica svolge alcuni lavori per arrotondare le entrate: fa la hostess e la cameriera presso alcuni night club. Appare intanto in alcuni spot pubblicitari come modella; tra questi ricordiamo quello per il talent show musicale "X Factor", nel 2013. Quando realizza che la sua unica e vera passione è il canto, lascia il mondo della moda e sceglie di dedicarsi completamente all’arte.
ESORDIO E CARRIERA
La sua carriera inizia già all'età di quattordici anni, grazie alla visibilità ottenuta dal suo canale YouTube. Infatti, incomincia pubblicando delle cover di canzoni famose di alcune sue cantanti preferite, tra cui Pink, Nelly Furtado e Christina Aguilera. Così il talento di Dua Lipa emerge subito: riceve il primo contratto nel 2016 dalla Warner Music Group, una delle più importanti etichette discografiche mondiali. Questa occasione porta Dua a pubblicare il suo primo singolo: New Love.
Poco dopo, alla fine dello stesso anno, esce il secondo brano: Be The One. Con quest'ultima canzone riesce ad occupare la top ten in ben undici stati; arriva in prima posizione in Polonia, Slovacchia e Belgio. Da questo momento la carriera artistica di Dua Lipa subisce un incremento notevole: escono diversi titoli, quali Last Dance, Hotter than Hell e Blow Your Mind; in particolare con quest'ultimo brano riscuote un enorme successo. La canzone riesce a classificarsi all'interno della US Billboard Hot 100, la principale classifica musicale statunitense. Sempre nel 2016 collabora con Sean Paul per il singolo No Lie, che raggiunge la decima posizione negli USA e permette a Dua Lipa di essere conosciuta anche in Italia.
L'anno seguente, nel 2017, decide di scrivere un altro brano: Scared to Be Lonely, insieme al dj olandese Martin Garrix, capace di regalarle altri successi. Ancora nel 2017 pubblica il suo primo cd, dal titolo Dua Lipa. Il singolo successivo è New Rules, che arriva ad ottenere 500.000 visualizzazioni su YouTube e la prima posizione nella classifica del Regno Unito.
Nel 2018 Dua Lipa riceve cinque candidature in diverse categorie della Brit Awards: è la prima artista donna a raggiungere tale traguardo. Nell'aprile dello stesso anno collabora con Calvin Harris, scalando nuovamente la vetta della classifica nel Regno Unito, arrivando prima per la seconda volta.
Anche il 2019 è un anno produttivo per l'artista inglese di origini albanesi kosovare. A febbraio vince due premi Grammy Awards, come migliore artista esordiente e migliore registrazione dance (per il singolo Electricity in collaborazione con il duo Silk City).
Il 2020 inizia con un invito italiano di prim'ordine: viene ospitata nella serata del 7 febbraio alla puntata di Sanremo 2020, condotta da Amadeus.
VITA PRIVATA
Nonostante il suo enorme e dilagante successo, dimostrato dai 20 milioni e oltre di followers su Instagram (dati: gennaio 2020), Dua Lipa non ha mai esibito la sua vita privata, che ha mantenuto sempre abbastanza nascosta. Dal 2020 è fidanzata con il modello americano Anwar Hadid (fratello delle celebri modelle Gigi Hadid e Bella Hadid).
IMPEGNO NEL SOCIALE
Dua Lipa è molto generosa: nel 2018 ha creato una società di beneficenza con il padre Dukagjin Lipa, anche lui cantante (che in Kosovo ha un discreto successo), denominata Sunny Hill Foundation; l'obiettivo dell'organizzazione è quello di aiutare i cittadini bisognosi del Kosovo, nazione originaria dei genitori e in cui la giovane cantante ha trascorso gran parte dell’adolescenza. Dua Lipa beneficia della cittadinanza albanese come persona di "interesse speciale", un riconoscimento dovuto sia alla sua carriera di cantante premiata con riconoscimenti internazionali, sia al suo coinvolgimento in cause sociali, come il suo impegno per l'Agenzia delle Nazioni Unite Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia (UNICEF), a sostegno delle campagne per i diritti dei bambini. Dopo il terremoto del 26 novembre del 2019 in Albania, Dua Lipa e alcuni designer albanesi hanno organizzato una campagna di raccolta fondi per aiutare le famiglie delle vittime del terremoto. Dua Lipa ha preso la cittadinanza albanese nel novembre 2022.
Dua afferma: “sono molto orgogliosa di avere un passaporto albanese. Mi sento molto fortunata a venire da un paese come l'Albania. Dico ai miei amici che abbiamo una cultura accogliente e ti senti parte della famiglia” (sito Radioeuropa). I giornalisti le hanno chiesto: “Siete l'immagine di maggior successo che abbiamo al mondo come Albanesi. Tuttavia, come commenterebbe la discussione sugli albanesi nei media britannici, spesso descritti come criminali o descritti dal ministro degli Interni come invasori?”. Dua Lipa ha risposto: “È una domanda molto importante perché è un problema molto grande come ci vedono gli occhi dei politici e di altre persone. Penso che siano parole spiacevoli e dobbiamo combattere la xenofobia ovunque nel mondo non solo per noi, ma per tutti. È l'unica cosa che possiamo fare per cambiare lo stigma che le persone hanno nei confronti degli albanesi” (ViaggiNews.com).
Dua Lipa è anche apparsa sulla copertina dell'ultimo numero della prestigiosa rivista "Vogue" per parlare di una questione sociale molto importante: il femminismo. La giovane artista ha dimostrato di essere lei stessa, come la maggior parte delle persone, una femminista, ma ha detto che bisogna fare attenzione al modo in cui usiamo questa espressione. "Per me essere femminista non significa odiare gli uomini, anzi; parliamo sempre di eroi maschili e figure eccezionali che hanno fatto avanzare il mondo. Dobbiamo capire che il femminismo richiede semplicemente l'uguaglianza di genere, sociale ed economica", ha affermato e altrove ha aggiunto: "Attualmente ci sono molte speculazioni sul fatto che mi esibirò alla cerimonia di apertura della Coppa del Mondo in Qatar, ma non sono, né sono stata, coinvolta in trattative per una cosa del genere. Sosterrò l'Inghilterra da lontano e visiterò il Qatar dopo che verranno rispettati i diritti umani come promesso quando hanno ottenuto il diritto di organizzare l'evento".
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Delia-Kaci, J. (2022, Novembre 27). Këngëtarja Dua Lipa Merr Nënshtetësinë Shqiptare. Radio Evropa e Lirë. https://www.evropaelire.org/a/dua-lipa-merr-pasaporte-shqiptare/32150914.html
URL consultato 10 dicembre 2022
Velija, K. (2018, Dicembre 6).Dua Lipa Për "vogue": Feminizmi Për Mua Nuk është të urresh meshkujt": Top albania radio: It's time. https://www.topalbaniaradio.com/v7/dua-lipa-per-vogue-feminizmi-per-mua-nuk-eshte-te-urresh-meshkujt/ URL consultato 11 dicembre 2022
Florjana. (2022, Novembre 28). Dua Lipa: Kam Vetëm Dy Pasaporta, Atë Shqiptare Dhe Britanike. Lajmi.net - Lajme të Kosovës nga politika, zgjedhjet, ekonomia, sporti, showbiz, lifestyle, arti dhe teknologjia. https://lajmi.net/dua-lipa-kam-vetem-dy-pasaporta-ate-shqiptare-dhe-britanike/
URL consultato 10 dicembre 2022
Fontana, C. (2019, Dicembre 26). Dua Lipa ha svelato gli idoli della sua infanzia. JFM. https://www.justfashionmagazine.com/dua-lipa-ha-svelato-gli-idoli-della-sua-infanzia/
URL consultato 10 dicembre 2022
Moraschini, S. (2020, Gennaio 26). Dua Lipa. La Biografia. Biografieonline. https://biografieonline.it/biografia-dua-lipa URL consultato 10 dicembre 2022
Redazione Controcampus. (2022, September 15). Chi è Dua Lipa: Età, Altezza, fidanzato e vero nome della cantante. Controcampus. https://www.controcampus.it/2020/04/chi-e-dua-lipa-eta-altezza-fidanzato-e-vero-nome-della-cantante/ URL consultato 10 dicembre 2022
Voce a cura di Mirela Mhilli - Nata a Vau-Dejes nel 1997, si è laureata in Psicologia presso l’Università Marin Barleti in Albania nel 2019; attualmente frequenta la Magistrale in Psicologia presso l’Università di Trento. Partecipa al Gruppo SCRIBUNT: gruppo di Scrittura di Biografie- Università di Trento (referenti: Maria Barbone, Susanna Pedrotti, Lucia Rodler).
Sara Paniccià
Ella Fitzgerald
Newport News, 1917 – Beverly Hills, 1996
Ella Jane Fitzgerald nasce in Virginia il 25 Aprile 1917: è una donna afroamericana di un quartiere povero. Rimane orfana precocemente, nel 1932. Molti sostengono che dopo la morte della madre il patrigno abbia abusato di lei, anche se questo non è mai stato confermato da Ella. Successivamente viene ospitata dalla zia materna ad Harlem. Ella Fitzgerald attraversa un periodo travagliato in cui inizia, ancora minorenne, a lavorare in un bordello. Finisce così nell’ex manicomio per orfani di colore di Riverdale (NY) e poi in un riformatorio, cioè alla New York State Training School for Girls. Nel 1934 Ella fugge, ma non torna a casa della zia per paura di essere rintracciata dalla polizia. Inizia quindi a vivere sola, a diciassette anni, per le strade di New York. In questo periodo comincia ad esibirsi per strada e a cercare audizioni nei locali di Harlem.
La svolta professionale arriva quando partecipa alla serata amatoriale del teatro Apollo nel Novembre del 1934. Inizialmente doveva esibirsi come ballerina ma, alla fine, incitata dal pubblico e dal presentatore, canta e vince. Successivamente inizia la collaborazione con Chick Webb che diventa anche il suo tutore; essendo minorenne, infatti, Ella non avrebbe potuto esibirsi senza il consenso di un tutore. Webb si occupa di Ella, sia musicalmente che nella vita privata, diventando quasi un padre. Quando muore Webb, nel 1939, Ella è già diventata la più famosa cantante jazz femminile. Circa dieci anni dopo compare un’altra figura di spicco nella vita di Ella, che diventerà il suo manager personale e produttore discografico: Norman Granz. Con il suo aiuto pubblica il suo lavoro più noto: The Songbooks. Nel 1960 si esibisce a Berlino e così nasce l'album Ella in Berlin: Mack the Knife che le vale un Grammy Award grazie alle improvvisazioni cariche di ritmo e brio. Fino alla fine degli anni settanta continua la sua carriera tra pubblicazioni di dischi ed esibizioni, comparendo anche come ospite nei concerti di colleghi importanti come Frank Sinatra o Dean Martin.
Nella vita Ella Fitzgerald si trova sempre in bilico tra le contraddizioni dell’epoca: da una parte il successo e dall’altra le barriere sociali dovute alla sua appartenenza etnica. Sviluppa disturbi alimentari legati all’insicurezza riguardo al suo aspetto fisico e al suo peso, e una profonda ansia da prestazione. Tuttavia, secondo Nicholson (1993), Ella “affrontò forse più discriminazioni come donna che come afroamericana”. L’anticonformismo le ha permesso di raggiungere il successo sperato, ma ha comportato numerose difficoltà nella vita privata e sentimentale.
I primi segnali preoccupanti riguardo alla sua salute risalgono alla fine degli anni settanta e vanno poi a peggiorare. Infatti nel 1994 subisce l’amputazione di entrambe le gambe. La sua ultima esibizione risale al gennaio 1991. Ella muore il 15 giugno 1996 a Beverly Hills (California) a settantotto anni. Muore nel sonno a seguito di complicazioni per il diabete.
Nella sua vita ottenne tutti i principali premi musicali (14 Grammy). Addirittura nel 1989 la Society of Singers ha istituito un premio alla carriera per l’eccellenza nelle arti vocali chiamandolo col suo nome: “ELLA”. Il primo anno ha ricevuto lei stessa tale premio per poi consegnarlo di propria mano l’anno successivo a Frank Sinatra. Ella è famosa per il suo tono vocale allegro e complesso allo stesso tempo, per la sua capacità di improvvisare. Ella è la prima donna che è riuscita ad unire canzone pop e standard jazz. Viene definita come la regina dello Scat (ovvero l’imitazione di strumenti): afferma di essersi ispirata ai fiati e di aver cercato di imitare la loro linea melodica; il suo metodo per improvvisare deriva dall’ascolto attento e dall’imitazione di tali strumenti. Una delle sue improvvisazioni più famose AirMailSpecial è stata registrata dal vivo nel 1957 in un concerto a Newport con Billie Holiday. Le sue improvvisazioni sono totalmente influenzate dalla strumentazione e dagli studi canori a cui si dedica per tutta la sua carriera.
Per Ella la musica è stato il modo per comunicare ma anche fonte di angoscia per paura di perdere o non meritare l’amore del pubblico: "Suppongo che ciò che ognuno vuole più di ogni altra cosa è essere amato. E sapere che voi mi amate per il mio canto è davvero troppo per me. Perdonatemi se non ho tutte le parole giuste. Forse posso cantarvelo, e allora lo capirete."
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Gabbard, K. (2020). Ella Fitzgerald: Just One of Those Things. Journal of American History, 107(3), 808–810. https://doi.org/10.1093/jahist/jaaa447
Gavin, Clamar, A. J., & Siderits, M. A. (2007). Women of vision their psychology, circumstances, and success. Springer Pub.
Nicholson, S. (2004). Ella Fitzgerald: The Complete Biography of First Lady of Jazz. Routledge.
Preponis, F. D. (2009). The effect of instrumental proficiency on jazz vocal improvisation https://www.proquest.com/dissertations-theses/effect-instrumental-proficiency-on-jazz-vocal/docview/305180638/se-2
*voce a cura di Sara Paniccià - Dottoressa in “Scienze e Tecniche psicologiche” e studentessa presso l’Università di Trento nel corso magistrale di “Psicologia Clinica”. Partecipa al Gruppo SCRIBUNT: gruppo di Scrittura di Biografie- Università di Trento (referenti: Maria Barbone, Susanna Pedrotti, Lucia Rodler).
Federica Amica e Roberta Romio
Françoise Barré-Sinoussi
Parigi, 1947 - vivente
Françoise Barré-Sinoussi è una donna appassionata e combattiva; una scienziata, ma anche un’attivista. Ha viaggiato in Africa e nel sud-est asiatico per promuovere una migliore educazione pubblica alla prevenzione dell'AIDS e istituire centri, dove i casi di infezione da HIV possono essere identificati e curati. Stupita dall'entità dell'epidemia, si è impegnata a combattere la malattia nei paesi con risorse limitate.
Per Barré-Sinoussi, il Premio Nobel è un nuovo punto di partenza. Grazie alla visibilità ottenuta, riesce a dare voce alla sua causa in maniera più attiva di fronte alle istituzioni.
François Barré-Sinoussi nasce a Parigi nel 1947 in una famiglia umile di cui si sa molto poco. Il fascino verso la natura nasce durante l’infanzia, quando trascorre buona parte delle vacanze estive a osservare le campagne dell’Alvernia. “Anche il più piccolo degli insetti potrebbe catturare la mia attenzione per ore”, afferma, infatti, la scienziata.
La stessa passione è risultata determinante nella scelta dell’università: infatti, è terribilmente indecisa tra la facoltà di Medicina e quella di Scienze Naturali. L’inclinazione verso la prima è data dalla perdita del cugino a causa della leucemia, ma alla fine sceglie la facoltà di Scienze Naturali alla Sorbona. Questo, infatti, è il percorso di studi più economico e breve: in questo modo riesce a non gravare sulla famiglia.
Durante i primi anni universitari, Barré-Sinoussi fa esperienze di ricerca in laboratorio, ed è proprio qui che comincia ad interessarsi alla biochimica. Nell’ultimo anno di specializzazione, nel 1971, decide di entrare come volontaria all’interno di un laboratorio; dopo una serie di rifiuti, viene accolta nel centro di immunologia dell’Istituto Pasteur di Parigi, guidato dal virologo Jean-Claude Chermann. Ciò determina la svolta decisiva nella vita della scienziata, riconosciuta per scoperte tanto importanti da farle meritare il Premio Nobel.
Anche se il laboratorio riempie la maggior parte delle sue giornate, e porta la scienziata a trascurare le lezioni universitarie, Barré-Sinoussi riesce a raggiungere la fine del suo percorso. Poco dopo la laurea, ottiene un dottorato negli Stati Uniti, presso il National Institutes of Health. Nel 1978, terminato il suo soggiorno in America, torna a Parigi per accettare un nuovo incarico all’Istituto Pasteur: qui, il suo team lavora sul legame tra retrovirus e tumori.
Françoise Barré-Sinoussi e il suo collega Luc Montagnier vengono coinvolti da Willy Rozenbaum - un medico che ha iniziato a vedere i primi casi dell’epidemia globale di AIDS in Francia - in una particolare ricerca. Nel 1982, infatti, i contagi, soprattutto fra gli omosessuali, si stanno diffondendo notevolmente; Rozenbaum, preoccupato per i suoi pazienti, vuole perciò indagare le cause della malattia.
La scienziata riesce in poco tempo, con l’aiuto del suo team, ad isolare il virus, responsabile della malattia, che viene oggi definito virus dell’immunodeficienza umana (HIV). Grazie a questa scoperta, i ricercatori possono rilevare l’infezione nei malati di AIDS e, dopo vari studi, progettano farmaci antiretrovirali per mantenerli in vita.
Quando il suo lavoro viene pubblicato, nel 1983, Françoise Barré-Sinoussi viene contattata da molti pazienti morenti che chiedono una cura. Sentendosi impotente, commenta in questo modo: “È stato davvero traumatico. Sapevo come scienziato che domani non avremo un trattamento perché sappiamo che la scienza ha bisogno di tempo per sviluppare farmaci. Vedere i pazienti morire e aspettarsi così tanto da noi è stato terribile”.
A 38 anni organizza la conferenza internazionale sull’AIDS a Parigi e due anni dopo istituisce, con i suoi colleghi, la International AIDS Society. Nel 1996 Barré-Sinoussi scopre una terapia antiretrovirale, ma, sopraffatta dalla pressione finora accumulata, si ritira dagli impegni pubblici a causa di una forte depressione.
“Come tutti, ci sono momenti nella mia vita in cui sono pessimista. Mi chiedo se dovrei continuare… Poi vado a fare un viaggio in Africa o nel sud-est asiatico e ho un piccolo incontro con persone affette da HIV, e dimentico il mio umore.”: è questo il pensiero che condivide Françoise Barré-Sinoussi quando torna a combattere in prima linea. Nel 2008, lei e il suo collega Montagnier ricevono il Premio Nobel per la medicina, in quanto primi scienziati ad aver isolato il virus dell’immunodeficienza umana. Ad oggi, Françoise Barré-Sinoussi dirige l’unità di regolazione delle infezioni retrovirali presso l'Istituto Pasteur, che è ancora alla ricerca di un vaccino o di una cura funzionale.
Lever, A. M. L., & Berkhout, B. (2008). 2008 Nobel prize in Medicine for discoverers of HIV. Retrovirology 5, 91.
Petralia, S. (2018). Françoise Barré-Sinoussi, l’AIDS e la scoperta dell’HIV. OggiScienza, 8 novembre.
Pincock, S. (2008). Françoise Barré-Sinoussi: shares Nobel Prize for discovery of HIV. The Lancet Journal, 372 (9647), 1377.
*voce a cura di Federica Amica e Roberta Romio. Laureate presso l’università Gabriele D’Annunzio di Chieti, in Scienze e Tecniche Psicologiche. Attualmente, Federica Amica frequenta la magistrale di Psicologia, con indirizzo Psicologia Clinica, a Trento; Roberta Romio frequenta la magistrale di Psicologia, con indirizzo Neuroscienze, a Trento. Amano aiutare il prossimo: hanno entrambe esperienze di volontariato, in chiesa e in ospedale. Partecipano al gruppo SCRIBUNT: (Gruppo di) Scrittura di Biografie - Università di Trento (referenti Maria Barbone; Susanna Pedrotti; Lucia Rodler).
Zoe Malvica
Grace O’Malley
Umhaill, c. 1530 – Rockfleet Castle, 1603
Grace O’Malley appartenne a una rinomata famiglia di marinai irlandesi. I genitori, Owen e Margaret O'Malley, erano capotribù del clan e controllavano Clew Bay e le aree locali, occupandosi, in particolare, del commercio e del pagamento delle tasse da parte dei marinai.
Grace apprese a casa l’amore per il mare ma, come donna, fu costretta a trascorrere l’infanzia e gran parte dell’adolescenza sulla terra ferma, al castello di Belcare, vicino a Westport.
Le leggende narrano che, mentre il padre stava imbarcandosi per un'operazione commerciale in Spagna, la giovane piratessa domandò di poter far parte dell’equipaggio, ricevendo però un secco rifiuto: “le ragazze non possono fare i marinai…e poi, i tuoi lunghi capelli rossi si impiglierebbero nel sartiame” (Favilli & Cavallo, 2017, p. 62).
Non contenta della risposta e desiderosa di dimostrare alla famiglia che anche le donne sanno navigare, Grace decise di tagliarsi i capelli e di adottare abiti tipicamente maschili, guadagnandosi così l'appellativo di “Gráinne Mhaol”, che in irlandese significa “calvo/con pochi capelli”.
Nel 1546, a soli 16 anni, Grace fu costretta a sposare Donal O'Flaherty, membro e futuro leader del clan omonimo, dal quale ebbe tre figli: Owen, Margaret “Maeve” e Murrough.
L’unione consentì alla famiglia O’Malley di espandersi territorialmente e di aumentare le ricchezze e l'influenza.
Nonostante la giovane età e un matrimonio di convenienza, Grace seppe guadagnarsi il rispetto degli uomini dei clan, prendendo parte attiva ai loro traffici; sottrasse addirittura al marito il comando della flotta, ottenendo così una posizione di inusuale spicco per una donna all’epoca.
Il Castello di Bunowen, dove viveva con il marito e i figli, nella parte più occidentale di Connacht, divenne il simbolo delle fiorenti attività commerciali.
Quando O’Flaherty perse la vita in battaglia, la giovane vedova tornò alla sua dimora, rientrando in possesso del castello di famiglia di Hen, sulle sponde del Lough Corrib. Grace tornò a casa, ma non fu sola: oltre ai figli, la seguirono più di duecento membri del clan O’Flaherty.
La morte del marito segnò per Grace un punto di svolta che la portò ad interessarsi sempre più vivamente al commercio e ai rapporti con la corona inglese.
Arricchitasi grazie a traffici più o meno legittimi, conquistò molti castelli, tra cui il Doona a Blacksod, il Kildavnet vicino a Achill Island, il castello di O'Malley di Clare Island e il Rockfleet a Clew Bay. Ciascuna di queste roccaforti era situata in una posizione strategicamente importante, sia per la protezione della costa che per la difesa da potenziali attacchi nemici.
Il proprietario del castello di Rockfleet era Richard-un-Iarainn Burke, secondo marito di Grace, col quale, nel 1567, ebbe un figlio: Tibbot, e dal quale si allontanò dopo solamente un anno di matrimonio.
Grazie al denaro e all’autorità ottenuti tramite la pirateria, Grace ingaggiò un'attività rivoluzionaria nei confronti della corona inglese (che stava acquisendo progressivamente sempre più potere in Irlanda), saccheggiando le navi mercantili di passaggio e costringendole a pagare per attraversare i mari o intrattenere relazioni commerciali.
Nel 1588, la corona, contrariata e infastidita da queste azioni offensive di pirateria, decise di attaccare il castello a Clare Island, dimora degli O’Malley, con una flotta composta da quasi trentamila uomini, provenienti da Galway.
All'età di 58 anni, Grace fu catturata e imprigionata da Richard Bingham, un governatore inglese incaricato di amministrare i territori irlandesi. A causa dell’esponenziale aumento del potere britannico in Irlanda, il brevissimo periodo di reclusione di Grace fu comunque segnato, oltre che da una diminuzione della sua influenza, anche da una massiccia perdita di ricchezze, che portò la piratessa e la sua famiglia sull'orlo della povertà assoluta.
Il governatore Bingham, però, non si limitò al solo arresto della donna, ma decise, nel 1593, di incarcerare anche il fratello, Dónal na Píopa, e i due figli, Tibbot Burke e Murrough O'Flaherty.
Una volta scarcerata, Grace presentò una petizione alla corona inglese, chiedendo il rilascio immediato dei familiari e salpò per l'Inghilterra con l’intento di affrontare direttamente la regina.
Lo storico confronto tra la regina Elisabetta I (1533 - 1603) e la "Regina dei pirati" ebbe luogo nel settembre del 1593 al castello di Greenwich.
Grace non volle inchinarsi dinanzi ad Elisabetta perché non la riconosceva come legittima sovrana d’Irlanda; eppure, in un primo momento, l’incontro sembrò essere un successo. La regina, infatti, accolse le richieste di Grace (tra cui il rilascio dei prigionieri e la rimozione del governatore Bingham dal suo incarico), chiedendo in cambio solamente di sospendere le molte ribellioni irlandesi e gli atti di pirateria contro la Gran Bretagna.
Il racconto tradizionale narra che tale discussione fu condotta in latino, poiché unica lingua conosciuta e parlata da entrambe le donne.
Inoltre, secondo gli scrittori di corte presenti all’incontro, Grace commise parecchie gaffe contrarie alla rigida etichetta reale. Starnutì rumorosamente e, soffiatasi il naso in un elegante fazzoletto di pizzo portatole da una dama, non esitò a gettarlo nel fuoco. Dinnanzi all’imbarazzo generale per tale gesto, la piratessa alzò indifferente le spalle, ribattendo che era usanza, in Irlanda, sbarazzarsi delle cose sporche una volta usate.
Tuttavia, una volta tornata a casa, Grace si rese conto che la regina esitava a mantenere la parola data.
Ben presto infatti, Elisabetta I rese a Bingham il ruolo politico di governatore, e, sentendosi oltraggiata, Grace appoggiò nuovamente le varie piraterie e rivolte contro la corona, annullando così gli accordi stipulati a Greenwich.
Grace tornò quindi alla vecchia (e tanto amata) vita da pirata fino al decesso, avvenuto nel 1603 (stesso anno in cui morì anche Elisabetta I), nel castello di Rockfeet.
Oggi Grace O'Malley è considerata una delle figure più importanti e significative della storia e del folklore irlandese del XVI secolo, e un'ispirazione per tutti coloro che scelgono di vivere la propria vita senza aderire a un’etichetta sociale o rinunciare ai propri desideri.
La sua storia vive ancora attraverso diverse tradizioni popolari, canzoni, poesie, racconti e film che hanno fatto il giro del mondo.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Chambers, A. (2014). “Pirate Queen of Ireland: The True Story of Grace O'Malley”. Dublin. The Collins Press
Cook, J. (2004). “Pirate Queen: The Life of Grace O'Malley, 1530-1603”. Cork. Mercier Press.
Favilli, E. & Cavallo, F. (2017). “Storie della buonanotte per bambine ribelli:100 vite di donne straordinarie”. Milano, Mondadori.
O’Connell, A. (2010). “Gráinne ní mháille or ‘Granuaile’, an Irish woman, a chieftain and a national symbol”. Revue Civilisations, Combat(s) de femme(s), pp.15-44.
Royal Museums Greenwich. (n.d.). “Grace O'Malley: The pirate queen of Ireland”.
https://www.rmg.co.uk/stories/topics/grace-o-malley-irish-female-pirate
*voce a cura di Zoe Malvica. Laureata in Filosofia e Scienze e Tecniche Psicologiche presso l’Università degli studi di Perugia, attualmente frequenta la magistrale in Psicologia Clinica presso l’Università di Trento. Appassionata da sempre allo studio della mente, dei pensieri e delle emozioni umane, si interessa anche di poesia, filosofia e letteratura classica. Partecipa al gruppo SCRIBUNT: (Gruppo di) Scrittura di Biografie – Università di Trento (referenti Maria Barbone, Susanna Pedrotti, Lucia Rodler).
Matilde Piccoli
Lee Krasner
New York 1908 - 1984
Lee Krasner nasce il 27 ottobre del 1908 a Brooklyn, New York, da genitori ebrei ortodossi, emigrati dall’Est Europa. La massiva emigrazione di inizio Novecento degli ebrei dall’Europa verso gli USA è causata da un sempre più forte antisemitismo, da una tassazione oppressiva e dall’obbligo di leva. Gli ebrei, quindi, si spostano in America con la speranza di trovare riforme politiche e giustizia sociale. Lee si forma presso una scuola ebraica femminile che lascia un segno indelebile sulla sua tecnica pittorica: nel dipingere un quadro Lee parte sempre dal punto più alto e a destra della tela, per poi spostarsi nel resto dello spazio. Segue, dunque, le regole della scrittura ebraica: da destra verso sinistra. Da ragazza, Lee è una fedele osservante ma vi sono degli aspetti della propria religione che non tollera: la divisione dei sessi in sinagoga e la radicata disuguaglianza di genere all’interno del giudaismo ortodosso. La sua famiglia è povera, ma Lee continua comunque i suoi studi presso la scuola superiore Washington Irving a Manhattan, dove viene introdotta all’arte industriale. In quegli stessi anni, nascono a New York movimenti sociali e filosofici radicali come l’Anarchismo, il Socialismo e il Comunismo; inoltre, i movimenti femminili protestano e scioperano per il diritto di voto. L’avversione di Lee verso la disuguaglianza di genere, unita alle letture nelle quali si immerge - Nietzsche e Schopenhauer –, erodono la sua fede, tanto che abbandona la pratica religiosa. All’ultimo anno di liceo, capisce qual è il suo destino: essere un’artista. Si iscrive quindi alla Cooper Union, un’accademia d’arte femminile.
Oltre all’arte, Lee si impegna anche nell’attivismo politico della comunità dove cresce, prendendo parte a proteste contro i licenziamenti della Work Progress Administration (WPA), la più grande azienda del New Deal impegnata nella costruzione di opere pubbliche. È in una di queste proteste che, il 2 dicembre del 1936, arrestata e portata in prigione, Lee conosce Mercedes Carles Matter, una pittrice e scrittrice americana. Nonostante provengano da retroterra differenti, instaurano una forte amicizia, fortificata dal fatto che entrambe entrano a far parte della Hofmann School of Fine Arts di New York nel 1937. L’impatto di questa scuola si nota nei disegni a carboncino di Krasner e nelle composizioni di nature morte di quel periodo. Nel 1939, coinvolta da Mercedes, Lee prende parte all’American Abstract Artists (AAA), un gruppo di artisti che ha lo scopo di promuovere e favorire la comprensione pubblica dell’arte astratta. Krasner collabora con gli AAA dal ’39 al ’43, realizzando composizioni
Per Lee è difficile essere un’artista donna negli anni ’30, ’40 e ’50 del Novecento: il suo lavoro non viene mai valorizzato dai colleghi maschi che nutrono invece una grande stima per l’artista Jackson Pollock, suo marito. In seguito, Lee Krasner viene associata allo stile di pittura chiamato “Espressionismo astratto”; insieme a lei anche Elaine de Kooning, Joan Mitchell e Helen Frankenthaler. Oltre al tradizionalismo dei musei e alla riluttanza dei collezionisti ad acquistare arte americana astratta perché non “artistica”, queste pittrici affrontano molte altre difficoltà: il sessismo, il classimo e l’avere un partner famoso (un’arma a doppio taglio perché apre alcune porte, ma ne chiude molte altre). Inoltre, Frankenthaler e Krasner, essendo ebree, combattono contro i divieti e gli stereotipi razziali. A Lee e alle altre artiste va riconosciuto il merito di avere anticipato temi e tecniche in materia di Astrattismo rispetto ai partner e agli altri pittori maschi, loro contemporanei: creano forme compositive che diventano, però, segni distintivi del lavoro artistico maschile.
Nonostante la dichiarata rottura con la pratica religiosa, sia come persona sia come artista, Lee viene influenzata dalla cultura ebraica per tutta la vita. Inoltre, la povertà vissuta nell’infanzia la porta ad avere una mentalità anti-spreco (ricicla le tele costose utilizzate oppure scartate da Pollock) e a vivere con semplicità. Alla sua morte, avvenuta il 19 giugno del 1984, Lee devolve tutto il patrimonio alla Fondazione Pollock-Krasner per poter aiutare gli artisti bisognosi, rispettando quello che è uno dei valori cardine della religione ebraica: Tsedakah o rettitudine, la giustizia verso gli altri, il mutuo-aiuto, la responsabilità verso la propria comunità; nel caso di Lee Krasner, non religiosa, ma artistica.
Dopo la morte, le opere di Lee appaiono in tutte le più importanti collezioni pubbliche americane (come il Museum of Modern Art e il Metropolitan Museum of Art di New York), facendole ottenere il meritato riconoscimento di “grande artista”.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Gibson, A. (2007). Lee Krasner and Women’s Innovations in American Abstract Painting. Woman’s Art Journal, 28(2), 11–19.
Levin, G. (2007). Beyond the Pale: Lee Krasner and Jewish Culture. Woman’s Art Journal, 28(2), 28–34.
Marter, J. (2007). Negotiating Abstraction: Lee Krasner, Mercedes Carles Matter and the Hofmann Years. Woman’s Art Journal, 28(2), 35–39.
Levin, G. (2011). Lee Krasner. A biography. HarperCollins.
*voce a cura di Matilde Piccoli. Nata a Verona nel 1998. Attualmente studia Psicologia Clinica presso l’Università di Trento. Ama la lettura, la musica e la fotografia. Partecipa al gruppo SCRIBUNT: (Gruppo di) Scrittura di Biografie – Università di Trento (referenti Maria Barbone; Susanna Pedrotti; Lucia Rodler).
Costanza Campi
Margaret Floy Washburn
New York 1871- Poughkeepsie 1939
«Niente al mondo è così irresistibile per le emozioni come la mente di un altro essere umano» (Washburn, 1916, p. 606)
Margaret Floy Washburn nasce ad Harlem (New York) nel 1871 dal Reverendo Francis ed Elisabeth Floy (Davis) Washburn. Figlia unica, passa i primi otto anni della sua vita in compagnia di adulti tra i fiori e i giardini della fattoria di famiglia, fondata dal nonno Michael Floy, vivaista e fiorista di successo. Non nomina mai amici di infanzia, ma scrive del «privilegio di un figlio unico di essere indisturbato durante il tempo libero» (Dallenbach, 1940, p. 1). Per i primi anni la sua educazione è affidata a tutor privati. A 12 anni, quando al padre viene assegnato il rettorato della Chiesa Episcopale di Kingston (New York), inizia a frequentare una scuola pubblica.
Dopo essersi laureata al Vassar College nel 1891, prosegue i suoi studi in psicologia sperimentale, etica e filosofia alla Cornell University, sotto la guida di Edward Bradford Titchner, giovane professore ed ex-studente di Wilhelm Wundt, considerato il padre fondatore della psicologia.
Prima donna ad ottenere un dottorato in psicologia e seconda donna Presidente dell’American Psychological Association (APA), dopo Mary Whiton Calkins, Margaret Floy Washburn si scontra con la cultura maschilista dell’epoca. Allo stesso tempo, il supporto della famiglia e di diversi esponenti del mondo accademico le permettono di attenuare alcune delle numerose barriere di genere.
Prima di essere ammessa alla Cornell University passa un anno alla Columbia University, nel laboratorio di psicologia sperimentale di James McKeen Cattell. Al tempo giovane dottorando, anche Cattell, come Titchner, era stato allievo di Wilhelm Wundt. Pioniera della battaglia per le pari opportunità educative per le donne, Margaret ottiene il permesso di partecipare in veste di uditrice alle lezioni del professor Cattell, che mai fece differenze di trattamento tra lei ed i suoi colleghi maschi. Tuttavia, le politiche androcentriche della Columbia non prevedevano il rilascio di una laurea a una donna. È su suggerimento di Cattell, fonte di grande ispirazione per la ricercatrice, che la giovane Margaret fa richiesta alla Cornell University.
Anche dopo aver ottenuto il dottorato (nel 1894), Margaret è ben cosciente dello stigma dell’essere una ricercatrice donna e vive sulla sua pelle innumerevoli rifiuti da parte del sistema sociale. Decide di dedicarsi alla sua amata professione, senza sposarsi, consapevole che il matrimonio avrebbe potuto influenzare negativamente la carriera. Al tempo infatti, quando una donna riusciva, con grande fatica, a ottenere una posizione di rilevo, non solo era sistematicamente pagata molto meno rispetto ai colleghi di sesso maschile, ma poteva anche essere forzata a lasciare la sua posizione in seguito al matrimonio.
Dopo aver conseguito il dottorato, Margaret insegna per sei anni al Wells College. Nel 1903 diventa professore associato di filosofia al Vassar College, dove insegnerà per 36 anni. Sotto la sua direzione, in cinque anni viene creato il Dipartimento di Psicologia e Psicologia Sperimentale. Purtroppo, a causa della natura stessa dei college femminili dell’epoca, il dipartimento di Washburn non ospita mai studentesse abilitate a proseguire la carriera universitaria. Questo rappresenta un inevitabile ostacolo alla creazione di una solida eredità accademica della ricercatrice.
Professoressa disponibile, incoraggiante e vivace, viene amata dalle generazioni di studenti a cui ha trasmesso la sua grande passione per la ricerca. Nel 1928 gli allievi celebrano i 25 anni di servizio dandole una considerevole somma di denaro, con cui Washburn finanzia tirocini per studenti non laureati e laureati che proseguivano la formazione altrove.
La vita accademica della Professoressa Washburn si caratterizza per la varietà della ricerca. I suoi studi si concentrano soprattutto sul mondo animale e sui processi motori mentali. «Amo ogni essere vivente» (Woodworth, 1948, p. 278), afferma. Considerata la madre della psicologia comparata, nel 1908 pubblica Animal Mind, libro negli anni rivisto e integrato in edizioni successive. Testo precursore del comportamentismo, rappresenta la prima pubblicazione di psicologia animale che racchiude e presenta studi precedenti in modo logico e coerente. Qui, si limita a esporre i fatti osservati, con estrema chiarezza e grande attenzione per le metodologie utilizzate, astenendosi da inferenze e aspetti aneddotici.
Come riconoscimento al suo inestimabile contributo accademico viene negli anni insignita delle più importanti onorificenze, tra cui: Presidente dell’American Psychological Association, Presidente del New York Branch della medesima associazione e membro della divisione di Antropologia e Psicologia del National Research Council.
Margaret Floy Washburn muore all’età di 69 anni a Poughkeepsie (New York) nel 1939, a causa degli esiti di un ictus avuto due anni prima.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Dallenbach, K. M. (1940). Margaret Floy Washburn 1871-1939. The American Journal of Psychology, 53(1), 1–5. http://www.jstor.org/stable/1415955
Fragaszy, D. M. (2021). Comparative psychology’s founding mother, Margaret Floy Washburn. Journal of Comparative Psychology, 135(1), 3–14. https://doi.org/10.1037/com0000272
Martin, M. F. (1940). The Psychological Contributions of Margaret Floy Washburn. The American Journal of Psychology, 53(1), 7–18. http://www.jstor.org/stable/1415957
Pillsbury, W. B. (1940). Margaret Floy Washburn (1871-1939). Psychological review, 47(2), 99–109. https://doi.org/10.1037/h0062692
Vaughn-Blount, K. (2011). Washburn, Margaret Floy. In: Goldstein, S., Naglieri, J.A. (Eds) Encyclopedia of Child Behavior and Development (pp. 1151-1153). Springer. https://doi.org/10.1007/978-0-387-79061-9_3061
Woodworth, R. S. (1948). Biographical memoir of Margaret Floy Washburn. National Academy of Sciences of the United States of America Biographical Memoirs, 25, 275-295.
Washburn, M. F. (1916). The Psychology of Esthetic Experience in Music. In National Education Association of the United States, Addresses and Proceedings of the 54th Annual Meeting (pp. 600-606). National Education Association of the United States. https://hdl.handle.net/2027/miua.0677752.1916.001
*voce a cura di Costanza Campi. Nata a Negrar, in provincia di Verona, nel 1999. Laureata in Scienze e Tecniche di Psicologia Cognitiva, è attualmente studentessa magistrale in Psicologia (curriculum Neuroscienze) presso l’Università degli Studi di Trento. Si dedica con passione allo studio del cervello e del comportamento umano. Vorrebbe in futuro dedicarsi alla ricerca in questo campo.
Partecipa al gruppo SCRIBUNT: Gruppo di Scrittura di Biografie – Università di Trento (referenti Maria Barbone; Susanna Pedrotti; Lucia Rodler).
Gioia Campagnolo
Marina Abramović
Belgrado 1946 - vivente
“Fin da quando avevo sei o sette anni sapevo di voler diventare un’artista”. (Abramović, Attraversare i muri, 2016, p. 24)
Marina Abramović è la più capace e famosa performance artist di tutto il mondo.
Nasce il 30 Novembre 1946 in Jugoslavia, durante la dittatura di Tito. I suoi genitori, Vojin e Danica, sono eroi di guerra: il padre era un partigiano, mentre la madre aveva il grado di maggiore.
Marina passa i primi sei anni della sua vita con Milica, la nonna materna, salvo poi tornare dai genitori, con la nascita del fratello, nel loro grande appartamento in centro a Belgrado. L’infanzia e l’adolescenza non sono facili: i genitori litigano violentemente, fino ad arrivare al divorzio, e anche la stessa Marina viene percossa dalla madre. Nonostante ciò, Danica sostiene sempre la passione della figlia verso l’arte, tanto che è proprio nella delicata età adolescenziale che a Marina viene una grande illuminazione: “Perché dipingere? Perché limitarmi a due dimensioni, quando potevo fare arte con il fuoco, l’acqua, il corpo umano? Qualunque cosa!” (Abramović, Attraversare i muri, 2016, p. 44).
Nel 1965 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Belgrado. Durante i suoi anni di studio, nel mondo scoppiano le Rivoluzioni del ’68. Marina, in questo periodo, forma un gruppo con alcuni suoi compagni di corso: nasce il Gruppo 70, composto da ragazzi che vogliono trovare forme d’arte diverse dalla pittura. Tra i membri del gruppo c’è Neša, che diventa il primo marito di Marina: questa unione ha vita breve perché poco tempo dopo lei conosce il fotografo e artista Ulay. Marina comincia a fare performance in giro per il mondo, come Rhythm 0. In questo lavoro l’artista rimane in piedi dietro ad un tavolo pieno di oggetti, tra i quali ci sono un martello, una piuma, una rosa, una sega, e persino una pistola con un bossolo accanto. Il pubblico, tramite l’uso di questi strumenti, deve interagire con Marina.
Un’altra performance si chiama Thomas Lips e prevede una serie di azioni: mangiare un chilo di miele, bere un bicchiere di vino rosso, rompere questo bicchiere con la mano destra, incidersi una stella a cinque punte sulla pancia utilizzando una lametta, frustrarsi e, infine, sdraiarsi sopra ad alcuni blocchi di ghiaccio. Al termine di questa esecuzione, è proprio Ulay a curare le ferite e prendersi cura di lei. Si presenta come un fotografo, con il viso da un lato incipriato e dall’altro trasandato. I due giovani scoprono, in seguito, di avere molte cose in comune, tra le quali essere nati lo stesso giorno; iniziano una relazione e una convivenza ad Amsterdam: “Ci sono coppie che, quando iniziano a convivere, comprano pentole e padelle. Ulay e io cominciammo a progettare di fare arte insieme” (Abramović, Attraversare i muri, 2016, p. 103).
Inizia la collaborazione artistica tra Marina e Ulay. In Relationship in Space, eseguita a Venezia, si posizionano a venti metri di distanza l’uno dall’altra, per poi corrersi incontro e scontrarsi. Il lavoro continua fino alle ultime capacità di resistenza psicologica e fisica degli artisti. In Rest in Energy, performance eseguita a Dublino, Marina regge un arco e Ulay ne tende la corda, tenendo fra le dita una grossa freccia che punta dritto al cuore della sua ragazza.
La loro relazione procede a gonfie vele, così, durante un viaggio in Australia, la coppia progetta di sposarsi: sarebbero partiti da due punti diversi della Grande Muraglia cinese e avrebbero celebrato il matrimonio nel punto d’incontro.
Le cose, però, cominciano ad incrinarsi quando Ulay esprime il desiderio di avere un figlio con Marina, la quale rifiuta per dedicarsi all’arte. La coppia comincia a nutrire sentimenti di rabbia, che trovano il culmine nel tradimento da parte di entrambi. Lei decide di partire per un viaggio in India, ma lui la cerca e si rimettono insieme, nonostante le cose non siano più come prima.
Dopo qualche peripezia, riescono ad andare in Cina per il loro progetto. Quando si incontrano, però, Marina scopre che il compagno ha messo incinta la propria guida/interprete, che lo ha accompagnato durante la camminata. Quel momento segna la fine della loro relazione, affettiva ed artistica, durata dodici anni.
Marina torna ad Amsterdam da sola e compra casa, ma continua a trasportare la sua arte nel mondo. Nel 1997 Marina porta alla Biennale di Venezia Balkan Baroque. In questa performance, l’artista vuole denunciare gli orrori della guerra che nel frattempo era scoppiata in Jugoslavia: siede sopra a un mucchio d’ossa di bovino e le pulisce da carne e cartilagine; nel frattempo intona canti popolari della sua infanzia. Grazie a questo lavoro, ottiene il Leone d’Oro.
Un mese prima di eseguire questa performance, Marina conosce Paolo, un altro tenebroso artista, e ne rimane ammaliata. Lui è sposato, ma decide di divorziare per Marina; così la neo coppia si trasferisce a New York. La loro relazione dura dodici anni, ma poi Paolo si innamora di un’altra donna. Marina, a questo punto, si trasferisce in periferia, a due ore e mezza da New York, ma la sua arte non si ferma. Nel 2010, infatti, porta al Museum of Modern Art la famosissima performance The Artist Is Present. In un ampio spazio del museo vengono collocati un tavolo con due sedie, una delle quali viene occupata dall’artista stessa, mentre l’altra dal pubblico. I protagonisti della performance si guardano intensamente negli occhi: l’amore che trasmette Marina fa emozionare molti visitatori. A sedersi davanti a lei, a un certo punto, si presenta anche Ulay.
Nel medesimo anno, Marina esprime il desiderio di creare il Marina Abramović Institute (MAI), ma deve presto cambiare prospettiva: i costi per la costruzione dell’edificio sono troppo elevati. L’idea, a questo punto, prende una nuova forma e nasce un nuovo slogan: “Non venite da noi. Siamo noi che veniamo da voi” (Abramović, Attraversare i muri, 2016, p. 392). Ecco che, quando le istituzioni chiamano il MAI, i collaboratori vanno a insegnare loro il Metodo Abramović: un programma per portare avanti le idee dell’artista.
Marina è una grande donna e una grande artista, che ha collaborato con personalità di spicco, come Lady Gaga, e ha rivoluzionato il mondo dell’arte con le sue performance. Ha iniziato il suo percorso in un contesto duro e rigido, con la strada in salita e mille difficoltà, ma la sua determinazione l’ha portata in alto. Mostra che qualsiasi obiettivo è raggiungibile, nonostante le difficoltà e le sofferenze della vita.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Abramović Marina, Kaplan James, Attraversare i muri: un’autobiografia, Bompiani, 2016.
Poli Francesco, Bernardelli Francesco, Arte contemporanea: dall’informale alle ricerche attuali, Mondadori, 2007.
Rosa Giulia, Tonani Lorenza, Marina: vita di Marina Abramović, Hop!, 2018.
*voce a cura di Gioia Campagnolo - Laureata in “Scienze e Tecniche di Psicologia Cognitiva” e studentessa di “Psicologia Clinica” presso l’Università degli Studi di Trento. Partecipa al gruppo SCRIBUNT: (Gruppo di) Scrittura di Biografie – Università di Trento (referenti Maria Barbone, Susanna Pedrotti, Lucia Rodler).
Marsha M. Linehan nasce il 5 maggio del 1943 a Tulsa, in Oklahoma. È una psicologa e autrice americana, professoressa emerita dell’università di Washington e creatrice della terapia dialettico-comportamentale, considerata oggi il gold standard per il trattamento del disturbo borderline di personalità.
La sua storia è stata sconosciuta al pubblico a lungo: Marsha ha sofferto, infatti, di un disturbo mentale che avrebbe molto probabilmente segnato la fine della sua carriera se fosse emerso.
Nel 2011, in una conferenza, coraggiosamente svelò il suo vissuto. Lo fece all’Institute of Living (Hartford, Connecticut) proprio dove da giovane passò un periodo di istituzionalizzazione.
Marsha nasce in una famiglia benestante, terza di sei figli; il padre era un petroliere di successo e la madre una donna forte dedita alla cura dei figli e al volontariato. A uno sguardo superficiale potrebbe risultare una situazione serena; in realtà, nasconde un ambiente giudicante e tradizionalista: essere donna a metà Novecento significava avere un certo tipo di aspetto, atto a compiacere il futuro marito e un atteggiamento remissivo nei rapporti, specialmente con gli uomini. E questo certamente non piaceva a Marsha: una donna estroversa e risoluta, pronta a dare la sua opinione se qualcosa non andava bene.
A completare il quadro familiare: la presenza di fratelli affermati e attraenti, termine di paragone per la madre che non accettava l’aspetto e il temperamento della figlia.
Fortunatamente il suo modo di essere, osteggiato tra le mura domestiche, rese Marsha popolare tra i compagni di scuola. Nonostante questo, dentro di lei crebbe una notevole sofferenza che culminò, l’ultimo anno di liceo, con il ricovero al centro psichiatrico-Institute of Living.
Pochi giorni dopo il suo arrivo, ebbe luogo un episodio di autolesionismo che aggravò la sua condizione; fu trattenuta, infatti, con diagnosi di schizofrenia e per questo passò al Thompson II, il reparto chiuso dell’ospedale.
Considerata come una delle pazienti più problematiche, fu spesso rinchiusa nella stanza di isolamento: una cella con un letto, una sedia e una minuscola finestra sbarrata. Questo e altri metodi coercitivi furono utilizzati per impedirle di farsi del male o suicidarsi, ma gli sforzi del personale furono vani. Fu un periodo molto duro per lei, così descritto in poesia:
Mi hanno messo in una stanza con quattro pareti
Ma in realtà me ne hanno lasciato fuori
La mia anima è stata gettata, contorta, da qualche parte
Le mie membra abbandonate qui.
Leitmotiv nella sua vita fu la profonda spiritualità e un giorno, smarrita e inerte dinnanzi al suo dolore proferì un voto a Dio: “mi sarei tirata fuori dall’inferno e una volta fatto questo, sarei tornata all’inferno e ne avrei tirato fuori le altre persone”. Le sue parole, a posteriori profetiche, ci lasciano intravvedere la sua forza e la grande spiritualità che davano direzione al suo agire.
Dopo due anni di istituzionalizzazione, fu finalmente rilasciata; non perché considerata guarita, ma perché data per incurabile con i mezzi dell’epoca. Una volta fuori era pronta a dimostrare al mondo che ce l’avrebbe fatta con le sue forze, anche se questo avrebbe comportato molti sacrifici.
Il ritorno a Tulsa dopo l’Institute of Living non fu semplice; la terapia elettroconvulsivante, subita nell’istituto, aveva seriamente compromesso la sua memoria. Inoltre, la costante invalidazione perpetuata dai genitori la portò alla scelta di lasciare casa. Così si trasferì al Young Women's Christian Association, dove poteva lavorare la mattina e seguire i corsi serali dell’università di Tulsa. Purtroppo, a causa di un ulteriore episodio di autolesionismo, fu costretta ad andarsene e finì a vivere in un quartiere malfamato, in un appartamento adatto alle sue scarse disponibilità finanziarie. Questa scelta creò ulteriori frizioni con la famiglia: il padre, infatti, avrebbe preferito pagarle una sistemazione più adeguata. Lei però voleva dimostrare di potercela fare da sola, nonostante tutto, nonostante la sua malattia.
In seguito, la vita la portò a lasciare Tulsa quando scoprì che il ragazzo che frequentava, in realtà, era sposato. Abbandonare la città significava costringersi a non vederlo e smettere di soffrire. L’arrivo a Chicago fu un nuovo inizio, tra lavoro e studio in una scuola serale, interrotto nuovamente da un episodio di autolesionismo che la costrinse a un momentaneo rientro in un istituto: il tentato suicidio era infatti punibile secondo la legge.
Dopo due anni dal suo arrivo, poté finalmente iscriversi alla Loyola University, come studentessa a tempo pieno grazie a un fondo fiduciario donato dallo zio per pagare il college ai nipoti. Durante il terzo anno di studio, nella cappella delle suore del Cenacolo, frequentata assiduamente, in un momento di preghiera, un’esperienza mistica, trasformativa, investì Marsha:
All’improvviso l’intera cappella si illuminò di una luce dorata e brillante, che risplendeva dappertutto. E subito, con gioia, seppi con assoluta certezza che Dio mi amava. Che non ero sola.
Dio era dentro di me. Io ero in Dio.(Linehan, 2021)
Questo evento cambiò radicalmente la visione che aveva di sé stessa: passò da una considerazione frammentata a una integrata in cui poteva finalmente dichiararsi amore. Fu il seme pronto a germogliare di un percorso che l’avrebbe condotta a essere la donna di successo che oggi conosciamo.
I suoi studi furono votati alla ricerca; ben presto le fu chiaro che la psichiatria non aveva i mezzi per trattare le persone che desiderava aiutare. Dopo la laurea, infatti, scelse psicologia sociale, corso di dottorato fortemente improntato alla ricerca, e nel 1971 riuscì a conseguire il titolo. Scoprì allora che il metodo scientifico esigeva la verifica empirica delle teorie; perciò, si allontanò dal modello psicanalitico per avvicinarsi all’approccio comportamentista.
A tal proposito seguì un programma post-dottorato alla Stoney Brook che le consentì di ottenere l’esperienza clinica terapeutica, che le era mancata negli studi precedenti. A metà di tale programma lavorò come “assistant professor” di psicologia alla Catholic University, ma nuovamente si sentì non accolta: straniera in terra straniera.
Nel 1977 un’inaspettata proposta di lavoro dall’università di Seattle diede una svolta alla vita di Marsha. Qui, nel 1982, dopo vari rifiuti, ottenne una cattedra e questo le consentì di proseguire la ricerca in modo autonomo e di sviluppare un approccio terapeutico innovativo per le persone con tendenza suicidarie. Tentò varie strade: la terapia comportamentale standard, basata sulla modifica dei comportamenti ritenuti deleteri, non mostrò efficacia in quanto invalidava il dolore delle pazienti; ma anche l’accettazione non sembrava essere promettente: le pazienti sentivano, infatti, di non essere aiutate. Intuì nel tempo come l’approccio dialettico potesse essere la sintesi degli opposti perché consentiva di bilanciare cambiamento e accettazione.
Poco dopo aver ottenuto la cattedra, per apprendere meglio come aiutare le pazienti, riuscì a ottenere un permesso per effettuare un ritiro in un monastero Zen: il Shasta Abbey. La sua ricerca spirituale e scientifica proseguì in Germania dal monaco Willigis Jäger, considerato tra i massimi esperti nello zen. Questo percorso le diede gli strumenti per introdurre nella sua futura terapia lo skills training legato all’accettazione radicale; nello specifico introdusse per prima nella terapia la mindfulness.
In seguito, fu in grado di dimostrare mediante uno studio clinico l’efficacia della terapia da lei sviluppata, che scelse di chiamare “dialettico-comportamentale”. Rispetto alla terapia comportamentale standard, essa riduceva significativamente gli atti parasuicidari ovvero i tentati suicidi, il tasso di abbandono della terapia stessa e i giorni di ricovero in ospedale psichiatrico.
Il suo approccio, duramente criticato da psichiatri e psicoanalisti, diede prova nel tempo della sua efficacia. Col passare degli anni molti altri studi ne avvallarono i risultati e ad oggi è la scelta preferenziale per trattare il disturbo borderline di personalità.
Marsha non si è mai sposata, ma nel 1994 nella sua vita subentrò Geraldine, poi divenuta sua figlia adottiva. Nel 2011 è stata onorata della carica di maestro Zen da Pat Hawkis, maestro zen di Tucson, Arizona.
Ha ricevuto numerosi premi che riconoscono i contributi clinici e di ricerca allo studio e al trattamento dei comportamenti suicidari, tra i quali il Louis I. Dublin Award for Lifetime Achievement in the Field of Suicide (1999) ed ulteriori riconoscimenti per il contributo nella ricerca clinica tra cui il Distinguished Scientist Award (2021).
Marsha, inoltre, è fondatrice e coordinatrice dello Suicide Strategic Planning Group e del DBT Strategic Planning Group, in cui viene valutato in modo collaborativo tra esperti lo stato attuale della ricerca e vengono tracciate le traiettorie di sviluppo successivo.
Ha scritto diversi libri, tra cui due manuali di trattamento: Cognitive Behavioral Treatment for Borderline Personality Disorder (1993) e Skills Training Manual for Treating Borderline Personality Disorder (1993).
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Borchard, T. J. (2011, June 28). Marsha Linehan: What is Dialectical Behavioral Therapy (DBT)? Psych Central. https://psychcentral.com/blog/marsha-linehan-what-is-dialectical-behavioral-therapy-dbt
Linehan, M. (2021). Una vita degna di essere vissuta. Cortina.
Linehan, M. (1993). Cognitive-behavioral treatment of borderline personality disorder. Guilford Press
*voce a cura di Vito Caputo - Nato in Puglia, si è trasferito in Trentino per frequentare “Psicologia clinica” all’Università di Trento. Ha conseguito nel 2022 la laurea in “Scienze e Tecniche Psicologiche” presso l’Università di Bari. È appassionato di tecnologia, letteratura e filosofia. Partecipa al Gruppo SCRIBUNT: gruppo di Scrittura di Biografie - Università di Trento (referenti: Maria Barbone, Susanna Pedrotti, Lucia Rodler).
Margherita De Zerbi
Maya Angelou
St.Louis, 1928 - Winston-Salem 2014
Marguerite Johnson, meglio conosciuta come Maya Angelou, è una poetessa e scrittrice americana, attivista, attrice, ballerina, regista, professoressa e madre nubile. La sua carriera è monumentale: nelle vesti di attivista per i diritti civili, collabora con personaggi del calibro di Dr. Martin Luther King Jr. e Malcom X; nel 2000 riceve la Medaglia Nazionale delle Arti dal presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton; nel 2010 riceve il più alto onore civile riconosciuto negli Stati Uniti, la Medaglia della Libertà, dal presidente Barack Obama. Prima della morte, Angelou riceve fino a cinquanta lauree onorarie.
Maya Angelou nasce nel 1928, a St. Louis in Missouri. All’età di tre anni si trasferisce a Stamps, in Arkansas, con il fratello maggiore, Bailey. Entrambi vengono accuditi dalla nonna paterna, che chiamano ‘momma’, figlia di ex-schiavi e imprenditrice. Vengono ricongiunti alla madre, Vivian, una carismatica cantante blues, solo quattro anni dopo.
Poco dopo il ritorno a St. Louis, si trasferiscono a casa del fidanzato della madre, Mr. Freeman. Quando Maya ha solo otto anni, Mr. Freeman comincia a molestarla, minacciando di uccidere il fratello nel caso in cui confidasse l’accaduto a qualcuno. Quando le molestie culminano nello stupro, Maya nasconde il suo intimo macchiato di sangue sotto il materasso, e rimane in silenzio. Cambiando il letto, la madre ed il fratello trovano la biancheria, e capiscono immediatamente le circostanze dell’accaduto. Qualche giorno dopo, Mr. Freeman viene trovato morto. Questo episodio è formulato da Maya Angelou stessa nel suo primo volume autobiografico, I Know Why the Caged Bird Sings (1969) come uno dei nodi principali della sua infanzia. È proprio in risposta alla morte di Mr. Freeman che Maya perde la parola, e per anni non riesce a riconciliarsi con la sua voce. Alcuni mesi dopo l’avvenuto, Maya e Bailey tornano da momma, a Stamps. Qui Maya conosce Mrs. Bertha Flowers, un’aristocratica del posto, che la introduce all’importanza della scrittura. Maya da sempre si era dedicata alla lettura, ma grazie all’intervento di Mrs. Flowers comincia a sperimentare la poesia e soprattutto ritorna a parlare.
Maya Angelou dà alla luce un figlio, Guy, all’età di sedici anni, convivendo questa volta con la madre biologica. Momma è vedova e Vivian divorziata: in nessuna delle due case c’è un sostegno economico maschile in senso tradizionale. Per le donne bianche tra gli anni Quaranta e Sessanta, la maternità era associata al lavoro domestico, mentre per le donne nere e di altre minoranze è sempre stata inseparabile anche e soprattutto dal lavoro al di fuori delle mura domestiche. Influenzata dalla cultura nera del ‘motherwork’, Maya rifiuta l’assistenza del governo nel sostegno e cura di Guy, e deve così accettare situazioni lavorative molto dure. In uno dei punti più bassi della sua giovane carriera, Maya lavora come prostituta, nella speranza di guadagnare abbastanza per aiutare il suo magnaccia, L.D. Tolbrook, di cui è innamorata, ad uscire dai debiti. Sempre, nella foga di raggiungere quello che allora si considerava lo stato di più grande e convenuta beatitudine: il matrimonio.
Nel 1949 Maya sposa il suo primo marito, Tosh Angelos, un marinaio greco. Fin dal principio, Tosh pretende che Maya abbandoni i suoi ruoli all’interno della Chiesa e della comunità, così come le amicizie con persone nere. Non solo: Tosh non riesce a tollerare la complessità di una coppia interraziale nei primi anni Cinquanta, e non condivide nemmeno l’ideale di famiglia nucleare. Così, il matrimonio si scioglie già nel 1952.
Dopo la separazione, Maya continua i suoi studi di danza e recitazione a New York, iniziati su suggerimento della madre Vivian. Nonostante Maya ritenga la bellezza ed il magnetismo di Vivian oppressivi, riconosce che essi sono una importante presentazione per il successo sul palcoscenico. Nel 1955 viene assunta nel cast dell’opera Porgy and Bess, e così riesce finalmente a elevare la sua situazione finanziaria.
Maya si sposa una seconda volta, anche se non ufficialmente, con un attivista sudafricano di nome Vusumzi Make. Quando lo incontra per la prima volta, Maya è in procinto di sposare un cacciatore di taglie, Thomas Allen. Anche se Maya a questo punto già collabora con Dr. King nella lotta per i diritti civili, desidera talmente il matrimonio con Thomas che pensa perfino di rinunciare alla sua carriera, per rispettare il ruolo tradizionale di moglie. Ma, quando la storia incontra una difficoltà, Maya decide di sposare Vusumzi Make. Purtroppo, anche in questa relazione si scontra con la dura realtà del matrimonio, lontana dalla beatitudine sognata. Vusumzi, come Thomas, si aspetta che Maya abbandoni la vita lavorativa per dedicarsi alla vita domestica. Se nel matrimonio con Tosh, Maya era spiritualmente affamata, nel matrimonio con Vusumzi è fisicamente esausta.. Maya confida:
” […] volevo essere una moglie e creare una bella casa per rendere il mio uomo felice, ma desideravo di più dalla vita che essere una domestica diligente con una vagina sempre disponibile […]”.
“[…] ero disoccupata, ma mai nella vita ho lavorato così tanto […]”
(Koyana, 2002).
Nonostante pretenda una diligenza ferrea nel lavoro domestico di Maya, Vusumzi non è economicamente altrettanto diligente: il lavoro da attivista lo fa dipendere economicamente da donatori e sponsor e inoltre ha una passione per il design di classe. A causa delle spese per i mobili, Vusumzi è frequentemente in debito. Scoperto che il marito insolvente è pure infedele, Maya ritorna a dedicarsi alla vita lavorativa, ed il matrimonio si scioglie di lì a poco. Maya Angelou si sposa una terza volta con uno scrittore e fumettista, Paul du Feu, nel 1973. Dopo quasi un decennio, anche questo matrimonio si conclude in un fallimento, e Maya rimane sola.
La carriera e la produzione artistica di Maya Angelou, così come il suo contributo alla lotta per i diritti civili, sono una pietra miliare della storia statunitense. La sua fama inizia con la prima pubblicazione, I Know Why the Caged Bird Sings (1969); seguono altri sei volumi, l’ultimo dei quali è intitolato Mom & Me & Mom (2013), sulla relazione tra Maya e la madre biologica, Vivian. L’approccio di Maya Angelou al racconto autobiografico si contraddistingue per elementi d’innovazione, come la sovrapposizione di diverse voci narranti: una voce del passato, appartenente a Maya protagonista degli eventi narrati, ed una voce del presente, di Maya che racconta lo svolgimento della storia. Un esempio di questa dinamica è la quarta autobiografia, The Heart of a Woman (1981): è evidente in questo volume il dialogo tra l’ironia di Maya come scrittrice, e l’esperienza dolorosa vissuta da Maya personaggio.
In un’intervista con la giornalista Carol E. Neubauer (1987), Maya descrive il processo di stesura dei volumi autobiografici. Una volta isolata dall’ambiente sociale, in una camera d’albergo quanto più spoglia possibile, alle 6:30 ogni mattino comincia a scrivere. Quando si tratta di riesplorare eventi o sensazioni inquietanti, la scrittrice dubita della sua capacità di riuscire ad uscirne indenne: non è facile permettere a sé stessa di essere fragile; paragona il processo di ricordo e stesura ad una caduta e all’impossibilità di recuperare l’equilibrio. Proprio a causa di questa inquietudine, normalmente non si dilunga più di sei o sette ore. Un altro elemento che contraddistingue il processo di scrittura di Maya Angelou è il funzionamento della memoria. Come approfondisce nell’intervista, a seguito degli anni spesi nell’impossibilità di comunicare vocalmente, crede che la memoria si sia sviluppata in maniera bizzarra: ricorda tutto, dagli odori al tessuto dei vestiti, ai rumori, o nulla.
Maya Angelou si dedica alla saggistica, alla produzione di volumi per bambini, alla composizione poetica ed alla performance delle sue poesie. Un momento di svolta nella popolarità è stato l’invito del presidente statunitense Bill Clinton a scrivere e performare un poema inaugurale in occasione della sua elezione. Oltre a dedicarsi alla scrittura e all’attivismo politico, Maya spende parte della sua carriera nell’industria cinematografica. Infatti, è la prima donna nera a produrre una sceneggiatura nel 1972, Georgia, Georgia di Stig Björkman. Nel 1979, collabora alla produzione di un film basato sul suo primo e più celebre volume autobiografico. Negli anni, compare in diverse produzioni, tra le quali Poetic Justice (1993) di John Singleton, There Are No Children Here (1993) di Anita W. Addison, e How to Make an American Quilt (1995) di Jocelyn Moorhouse.
Maya Angelou muore nel 2014, all’età di 86 anni. Alla sua scomparsa, Barack Obama la ricorda come:
“[…] la luce più luminosa dei nostri tempi – una scrittrice brillante, un’amica fiera, ed una donna veramente fenomenale […]” (BBC News, 2014).
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Angelou, M. (1969). I Know Why the Caged Bird Sings. Random House.
Angelou, M. (1974). Gather Together in My Name. Random House.
Angelou, M. (1995). Phenomenal Woman: Four Poems Celebrating Women. Random House.
Angelou, M. (1997). The Heart of a Woman. Random House.
Angelou, M. (2013). Mom & Me & Mom. Random House.
BBC News. (2014, May 28). Maya Angelou “the brightest light” says Barack Obama. https://www.bbc.com/news/entertainment-arts-27606776
Koyana, S. (2002). The Heart of the Matter: Motherhood and Marriage in the Autobiographies of Maya Angelou. The Black Scholar, 32(2), 35–44. https://doi.org/10.1080/00064246.2002.11413190
Neubauer, C. E. (1987). An Interview with Maya Angelou. The Massachusetts Review, 28.2, 286–292.
Paramita, A. P. (2009). Sexuality as Seen in Maya Angelou’s Poems, “Woman Me”, “Phenomenal Woman”, and “Seven Women’s Blessed Assurance.” RAINBOW, 1, 1–16.
Poetry Foundation. (n.d.). Maya Angelou. https://www.poetryfoundation.org/poets/maya-angelou
Townes, E. M. (2013). In Memoriam: The Power of Testimony: Maya Angelou (April 4, 1928–May 28, 2014). Journal of the American Academy of Religion, 82.3, 579–581.
*voce a cura di Margherita De Zerbi. Nata a Ravenna nel 1999, ha conseguito una laurea triennale in Psicologia Clinica presso l’Università di Amsterdam (Universiteit van Amsterdam). Attualmente frequenta il corso magistrale di Psicologia Clinica presso l’Università di Trento. Partecipa al gruppo SCRIBUNT: (Gruppo di) Scrittura di Biografie - Università di Trento (referenti Maria Barbone; Susanna Pedrotti; Lucia Rodler).
Lisa Berlanda
Stormé DeLaverie
New Orleans 1920 – New York 2014
“Perche non fate qualcosa?”
È con queste parole che Stormé DeLarverie ha segnato la storia della comunità oggi definita LGBTQIA+ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer, Intersessuali, Asessuali). Nata nel 1920 a New Orleans, Louisiana, da una relazione clandestina tra una donna afroamericana e uno statunitense bianco, Stormé può essere considerata la promotrice della prima sommossa di Stonewall a New York. Qui infatti, il 28 giugno 1969, scoppia la prima rivolta contro le discriminazioni nei confronti della comunità LGBTQIA+.
Si avvicina alla comunità a 18 anni, quando capisce di essere lesbica e qui trova una famiglia che non la discrimina per il suo orientamento sessuale, il suo aspetto androgino e il colore della pelle.
Appassionata di jazz fin da giovane, già a 15 anni si esibisce nei club di New Orleans. Questa sua passione la trasforma in una dei protagonisti del Jewel Box Revenue: con un cast composto da 25 drag queen, ossia di artisti maschi che indossano abiti femminili, sfoggiando trucco e abbigliamento volutamente appariscente, DeLarverie era il solo drag king (un’artista che si esibisce in abiti e con un portamento maschile). Questa compagnia teatrale, fondata nel 1939, è l’unico gruppo drag etnicamente inclusivo al tempo, e diventa un punto di ritrovo per molte persone.
Il teatro e l’intrattenimento le fanno conoscere la sua compagna di vita, ovvero una ballerina di nome Diana. Vivono assieme per 25 anni fino a quando, negli anni ’70, Diana muore. Lisa Cannistraci, cara amica di DeLarverie, tutrice legale e proprietaria di un bar a New York, ci rivela che anche dopo la sua morte Stormé ha conservato una sua foto sempre con lei.
Il ruolo di drag king ha svolto un ruolo fondamentale nella sua vita. Arrestata molteplici volte perché scambiata per un uomo che indossava vestiti da donna, andando contro una vecchia legge americana che obbligava le donne ad indossare almeno tre capi femminili, inizia a vestirsi da uomo anche fuori dal palco.
Questa sua scelta attira l’attenzione delle donne lesbiche, facendola diventare un punto di riferimento per la comunità LGBTQIA+ a New York.
Il portamento e la fisicità mascolina le hanno permesso inoltre di lavorare come buttafuori nei locali gay. Ed è proprio durante il suo turno allo Stonewall Inn (bar nel Greenwich Village, New York) che iniziano le incursioni della polizia nel ‘69. Stormé viene presa, portata all’esterno per l’identificazione e colpita. Ferita e con le manette, DeLarverie si gira verso la folla e pronuncia le famose parole che infiammarono i presenti: "Perché non fate qualcosa?”.
Non esistono filmati o verbali che confermano la storia, ma numerose testimonianze di persone presenti confermano l’accaduto, riconoscendo in DeLarverie la “lesbica butch” (termine inglese per indicare donne lesbiche con atteggiamenti e abbigliamento maschile) che ha sferrato il primo pugno al poliziotto. Tra queste c’è anche Lisa Cannistraci, secondo quanto ha dichiarato nel corso di un’intervista nel al New York Times con il giornalista William Yardley: “Nobody knows who threw the first punch, but it’s rumored that she did, and she said she did” (“Nessuno sa chi ha lanciato il primo pugno, ma si dice che lei l’abbia fatto, e lei dice di averlo fatto”).
A seguito della rivolta di Stonewall, DeLarverie diventa un’attivista e paladina della comunità: decide di pattugliare i quartieri intorno ai bar queer per fermare qualsiasi tipo di violenza e molestia nei confronti di altre donne lesbiche. Inoltre, DeLarverie continua a lavorare come buttafuori nei locali gay fino a 85 anni, e dal 1985 al 2000 è la vicepresidente della Stonewall Veterans Association, di cui resta membro rispettato fino alla morte.
DeLarverie è deceduta a 94 anni, il 24 maggio 2014, per un attacco di cuore, dopo aver passato gli ultimi due anni della sua vita in un centro anziani a seguito della diagnosi di demenza.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Feminist Vhs Archive (1987), Stormé DeLarverie content| 1987 clips
https://www.youtube.com/watch?v=c-Yudf1bm6Q URL consultato 31 agosto 2022
Itlmedia (2009), A Stormé Life
https://www.youtube.com/watch?v=XgCVNEiOwLs, URL consultato 31 agosto 2022
Napoletano N. (26 giugno 2021), 28 giugno 1969: Stormé DeLarverie, l’orgoglio lesbico che infiammò Stonewall, BLMAG
https://www.blmagazine.it/28-giugno-1969-storme-delarverie-lorgoglio-lesbico-che-infiammo-stonewall/
URL consultato 31 agosto 2022
Palmieri, B. (21 luglio 2020), Nancy Terry, StorméDeLarverie, e the Jewel Box Revue, Camp Books, https://www.campbooks.biz/blog/2020/6/28/jewelbox
URL consultato 31 agosto 2022
Rainbow History Class, (n.d.), The story of StorméDeLarverie
https://www.youtube.com/shorts/p5j2xOe_QZc
URL consultato 31 agosto 2022
Robertson, J. D. (4 giugno 2017), Remembering Stormé – the woman of color who incited the Stonewall revolution, Huffpost
URL consultato 31 agosto 2022
Stonewall National Monument (5 ottobre 2020), Stormé DeLarverie, National Park Service, https://www.nps.gov/people/storme-delarverie.htm
URL consultato 31 agosto 2022
Yardley, W. (29 maggio 2014), Storme DeLarverie, early leader in the gay rights movement, dies at 93, The New York Times
URL consultato 18 ottobre 2022
*voce a cura di Lisa Berlanda - Nata a Trento nel 1999, è una studentessa magistrale di Psicologia clinica all’Università di Trento. Particolarmente interessata al ramo della psicologia di genere, si sta specializzando nel supporto sociale e nella sensibilizzazione riguardante la comunità LGBTQIA+. Partecipa al gruppo SCRIBUNT: (Gruppo di) Scrittura di Biografie - Università di Trento (referenti Maria Barbone; Susanna Pedrotti; Lucia Rodler).
Matilde Ferri
Waris Dirie
Galcaio 1965 - vivente
“Mia madre mi ha dato il nome di un miracolo della natura“.
(Dirie, W. & Miller, C., Fiore del deserto: storia di una donna, 20162, 51).
“Waris” in somalo, significa “fiore del deserto”. E come un bocciolo fiorisce in un terreno arido e pieno di insidie, così anche Waris Dirie, modella e attivista contro la mutilazione genitale femminile, riesce a “fiorire” dal suo doloroso passato.
Nasce nel 1965 a Galcaio, una città al confine tra Somalia ed Etiopia. La famiglia appartiene a una tribù nomade: l’unico bene è il bestiame e ogni giorno lotta per trovare cibo e acqua. Waris cresce così insieme ai genitori e altri 12 fratelli e sorelle, occupandosi del gregge e affrontando la dura vita del deserto. Fin da piccola, tuttavia, mostra un temperamento diverso da quello atteso dalle donne della sua tribù: è estremamente curiosa, testarda e ribelle.
Vivendo nel deserto, senza calendari né orologi, Waris non sa di preciso quando viene sottoposta alla mutilazione genitale femminile, ma è sicuramente ancora molto piccola. Il rituale è conosciuto in Somalia come “circoncisione femminile”. Esso, tuttavia, ha poco a vedere con la circoncisione maschile: alla giovane donna, spesso bambina, vengono rimosse le piccole e grandi labbra dei genitali e il clitoride, mentre i lembi di pelle restanti vengono ricuciti insieme grossolanamente, lasciando solo un piccolo foro per i fluidi corporei. In alcuni luoghi, tuttavia, la FGM (Female Genital Mutilation) consiste nella sola rimozione della parte superiore del clitoride. La pratica viene svolta senza anestesia e senza cura delle norme igienico-sanitarie. Perciò, nella maggior parte dei casi, le bambine muoiono per infezioni o dissanguamento. La stessa Waris perde sorelle e parenti a causa di questa pratica. Una volta terminato il taglio, vengono legate insieme le gambe per facilitare la cicatrizzazione. Per chi sopravvive alle infezioni, le complicazioni dovute alla FGM sono innumerevoli: dalle problematiche legate al ciclo mestruale al rischio di molteplici infezioni. Le donne devono vivere per tutta la vita in una continua sofferenza fisica e psicologica, private inoltre della possibilità di qualsiasi piacere sessuale.
Ancora oggi, ogni anno, circa 2 milioni di donne in tutto il mondo rischiano di subire la FGM. La ragione di tale rituale non è medica né religiosa: serve solo a garantire al marito la verginità e la fedeltà sessuale della sposa. Non c’è nulla, infatti, nella Bibbia o nel Corano che faccia riferimento a questo rituale.
Nonostante il forte attaccamento alla terra e alla famiglia, a circa 13 anni Waris Dirie decide di scappare per sfuggire a un matrimonio combinato con un uomo molto più vecchio di lei. Cammina da sola nel deserto per molti giorni, senza cibo né acqua, affrontando le numerose insidie del selvaggio territorio africano, fino a raggiungere finalmente Mogadiscio.
Giunta nella capitale somala, Waris risiede per qualche tempo dalla sorella Aman, fuggita anche lei dalla famiglia anni prima. Tuttavia, capisce presto che quella vita casalinga le sta stretta. Comincia allora a trasferirsi da una famiglia all’altra, lavorando come domestica. L’occasione attesa capita quando, per caso, origlia una conversazione tra una zia e un parente venuto in visita: il suo nome è Mohammed Chama Farah e cerca una domestica per la futura residenza in Europa, dove dovrà alloggiare in qualità di ambasciatore. Waris non ci pensa due volte: convince la zia a proporre il suo nome all’ambasciatore e in poco tempo si trova su un aereo diretto a Londra.
Una volta giunta in Gran Bretagna, Waris lavora come domestica per alcuni anni nella casa dello zio. In questo periodo viene contattata da un fotografo interessato a scattarle alcune fotografie, ma la rigida morale somala le impedisce di rispondere all’offerta. Waris ha la sua occasione come modella solo tempo dopo, quando lo zio decide di tornare in Somalia con la famiglia. Consapevole di cosa avrebbe significato per lei tornare in Africa, Waris nasconde il passaporto, costringendo così i parenti a lasciarla a Londra da sola. Ora è finalmente libera.
Grazie a un incontro fortuito con un’altra ragazza somala, Halwu, Waris alloggia temporaneamente in un ostello della YMCA (Young Women Christian Association). Comincia anche a lavorare da McDonald’s e nel frattempo frequenta una scuola di inglese. Grazie all’amicizia con Halwu, Waris riesce a ricontattare il fotografo che l’aveva notata tempo prima, Malcolm Fairchild, e farsi scattare alcune foto. Il book viene tanto apprezzato che Waris viene contattata dall’agenzia di modelle Crawford. È proprio questa agenzia a trovarle il lavoro con il famoso fotografo Terence Donovan per il calendario Pirelli, lanciando così la carriera da modella. “Da quel giorno non misi più piede in un McDonald’s” scrive ironicamente Waris Dirie, nel suo libro autobiografico (Dirie, W. & Miller, C., Fiore del deserto: storia di una donna, 20162, 61).
Il successo con il calendario Pirelli fa sì che Waris venga notata per il nuovo film di James Bond, 007 Zona Pericolo, con Timothy Dalton. Questa e altre proposte di lavoro all’estero, però, la costringono ad affrontare le problematiche legate al passaporto, ormai non più in regola: si procura prima un passaporto falso e, in seguito a una truffa, accetta di sposare il fratello di un’amica, Nigel, che le propone un matrimonio fantoccio per evitare l’espulsione dal paese. Waris può dunque partire per l’Europa e l’America, sfondando nel mondo della moda. Ma, benché la sua carriera prosegua sempre meglio, l’unione forzata con Nigel si rivela ben presto difficoltosa.
Arriva a Manhattan nel 1991 e comincia a lavorare per le maggiori aziende di vestiti, gioielli e cosmetici; viene proiettata sulle più celebri riviste di moda tra cui “Elle” e “Vogue”; collabora con noti fotografi del settore, tra cui Richard Avedon, conquistando il mondo delle passerelle. Numerose sono le sfilate a cui partecipa, a Milano, Parigi, Londra e New York.
Nel 1995 la BBC le propone un documentario sulla sua vita, intitolato A Nomad In New York. Waris accetta, a patto però che, una volta in Somalia, la aiutino a ricongiungersi con la madre. Dopo lunghe ricerche la BBC riesce a mettersi in contatto con la donna e Waris può finalmente incontrare la sua famiglia.
Dopo il ritorno negli Stati Uniti e l’uscita del documentario, Waris continua a girare per il mondo, rimanendo una nomade anche in Occidente.
È a New York che incontra il futuro marito Dana Murray, musicista jazz. Poco dopo il matrimonio, la coppia ha il primo figlio: il suo nome è Aleeke, che in somalo significa “Leone vigoroso”.
Negli anni Novanta, inoltre, Waris riesce anche a farsi operare per riaprire la cucitura dell’infibulazione. Il confronto con le donne europee le mostra quanto sia diversa da loro: “Il mistero fu svelato; da quel momento non ebbi più bisogno di interrogami, né di sperare, magari, che le altre donne fossero mutilate come me. Ebbi improvvisamente la certezza di essere diversa” (Dirie, W. & Miller, C., Fiore del deserto: storia di una donna, 20162, 161).
Waris tiene nascosto il suo segreto fino all’intervista con Laura Ziv, giornalista di «Marie Claire», a cui racconta per la prima volta della sua infibulazione.
“volevo che i sostenitori di quella tortura sentissero finalmente dalla voce di una donna che cosa si prova, visto che nel mio paese le donne sono private del diritto di parola […] Ho dovuto farlo non solo per me, ma per tutte le ragazze che, in molte parti del mondo, la stanno ancora subendo”
(Dirie, W. & Miller, C., Fiore del deserto: storia di una donna, 20162, 262).
Così scrive Waris nella sua autobiografia. L’intervista, pubblicata con il titolo La tragedia della mutilazione genitale femminile solleva subito non solo enorme successo, ma anche un forte sdegno collettivo. Grazie ad essa, Waris viene contattata da Barbara Walters per realizzare insieme a Ethel Bass Weintraub un servizio per il programma 20/20, intitolato poi In viaggio verso la guarigione, vincitore di molti premi e trasmesso nell’estate del 1997.
In seguito, la United Nations Population Fund, in collaborazione con l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità), invita Waris a partecipare alla lotta contro la mutilazione genitale femminile in qualità di ambasciatrice. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che ad oggi la pratica sia stata subita complessivamente da circa 200 milioni di donne e ragazze in tutto il mondo e ogni anno 3 milioni di bambine siano ancora a rischio.
L’FGM viene svolta anche nei paesi occidentali, dove le comunità africane fanno venire donne esperte in questa pratica. In alternativa, sono gli stessi padri a svolgerla su mogli e figlie. Il “Centro federale per il controllo e la prevenzione delle malattie” stima che solo nello stato di New York circa 27.000 donne sono state o saranno presto sottoposte a questo rituale.
Nel 2002, Waris fonda a Vienna la Desert Flower Foundation che finanzia scuole e ospedali in Somalia e che oggi ha sedi in tutto il mondo. Per il suo lavoro da attivista, Dirie riceve molti premi e riconoscimenti a livello internazionale.
Il suo libro autobiografico, Desert Flower, viene pubblicato nel 1998, grazie all’aiuto di Cathleen Miller, ed è oggi bestseller internazionale. Queste le parole conclusive:
“Sono consapevole dei pericoli che questo lavoro comporta […]. Ma la mia fede mi dà la forza di proseguire, perché di certo Dio conosce la ragione per cui mi ritrovo su questa strada. Mi ha affidato un compito, una missione […] Sfido la sorte, come ho sempre fatto in tutta la mia vita”
(Dirie, W. & Miller, C., Fiore del deserto: storia di una donna, 20162, 268).
È autrice di altri romanzi tra cui Desert Dawn (Dirie W. & D’Haem J., 2003), Desert Children (Dirie W., 2005) e Letter to my mother (Dirie W., 2007).
In seguito al riconoscimento della cittadinanza austriaca, ottenuta nel 2005, Waris Dirie vive oggi con il marito e i due figli tra Vienna e Danzica, in Polonia.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
https://www.desertflowerfoundation.org/en/home.html
Retrieved from https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2013/oct/14/waris-dirie-female-genital-mutilation-fgm
*voce a cura di Matilde Ferri. Nata a Bologna nel 1998, ha conseguito una laurea triennale in Scienze e Tecniche di Psicologia Cognitiva presso l’Università degli Studi di Trento. Attualmente studia Psicologia Clinica sempre nell’Ateneo trentino. Intende specializzarsi in Psico-sessuologia una volta terminato il percorso magistrale. Partecipa al gruppo SCRIBUNT: (Gruppo di) Scrittura di Biografie - Università di Trento (referenti Maria Barbone; Susanna Pedrotti; Lucia Rodler).