Ecco cosa troverai esplorando questa pagina
Elena Bernardini, UniTrento, DICAM/DiPSCO
Giovanna A. Massari, UniTrento, DICAM
Michaela Oberhuber, Associazione Geschichte und Region / Storia e regione di Bolzano
Lucia Rodler, UniTrento, DiPSCo
Cristina Sega, Biblioteca Civica "G. Tartarotti" di Rovereto
Laura Sciorati, UniTrento, DiPSCo
Anna Finetto, Liceo "A. Rosmini" di Rovereto
Le storie che leggiamo su Bianca Laura Saibante possono divergere moltissimo. Testi diversi ci raccontano storie diverse, hanno accenti narrativi diversi e propongono interpretazioni diverse. Le immagini di Saibante costruite nel corso del tempo evidenziano che è stata ritenuta importante e degna di essere ricordata per aspetti sempre diversi.
Per far emergere questa complessità, qui si propongono tre esempi. Differiscono tra loro per vari aspetti: l’anno e il contesto della loro produzione, la lunghezza e la natura del testo, gli interessi e gli scopi che li hanno ispirati. Tutto questo influenza in modo decisivo quale Saibante possiamo rinvenire.
Se a fine Settecento di Bianca Laura Saibante interessava soprattutto il profilo da letterata riconosciuta e da donna religiosa, nei secoli successivi i motivi d’interesse sono cambiati e così le sue immagini: una biografia di inizio Novecento – descrivendola come madre che ha contributo all’ideale della patria con l’educazione del figlio – riflette in pieno il momento di massima tensione nazionale nel Tirolo italiano, mentre nei nostri giorni, con l’emersione di nuove sensibilità ed esigenze in relazione alla categoria di genere, Saibante viene interpretata come donna che usò la penna per combattere le disuguaglianze tra i sessi.
L'immagine di lei che ci viene presentata dipende dunque fondamentalmente da cosa leggiamo. I testi offrono informazioni sulla sua vita, persona e opera, ma con sfumature molto diverse. È importante, dunque, per avvicinarsi a Saibante (come, del resto, a ogni persona del passato), riflettere sul contesto nel quale sono stati prodotti i testi.
Nel 2021 il giornale online Vulcano Statale dell’Università degli studi di Milano ha pubblicato un breve ritratto su Bianca Laura Saibante. [1] La parte principale dell'articolo si concentra su quegli scritti storico-filosofici di Saibante, nei quali ha affrontato temi legati alla questione femminile. La chiave di lettura dell’autrice – ben diversa da quelle di chi prima di lei si è occupato di Saibante – influenza decisamente la narrazione della Saibante, in effetti lei qui viene ricordata come una “femminista ante litteram”.
[1] Elena Gentina, Insolite ignote. Bianca Laura Saibante, 28.4.2021, in: Vulcano Statale [ultimo accesso: 24.10.2022].
Una lettura completamente diversa è proposta da Anatolone Bettanini nella sua biografia di Bianca Laura Saibante del 1900 [1]. La sua narrazione di Saibante si basa fondamentalmente su due aspetti intrecciati tra di loro: da una parte l’enfasi sul suo presunto contributo alla patria italiana (per esempio viene collocato il coinvolgimento di Saibante nella fondazione, affermazione e crescita dell’Accademia Roveretana degli Agiati in un quadro che pone particolare enfasi sull’“italianità” di questa istituzione), dall’altra la sua funzione di madre “educatrice” di Clementino Vannetti.
La particolarità della storia di Saibante raccontata da Bettanini emerge in modo chiaro nel suo ragionamento conclusivo: Bianca Laura Saibante avrebbe certo avuto i requisiti per diventare una “letterata più erudita e di più vasta fama”, ma proprio perché non ha rinunciato a famiglia e figlio ha potuto svolgere un servizio più elevato, formando “il grande patriota, l’illustre letterato e geniale artista, Clementino Vannetti”.
[1] Anatolone Bettanini, Saibante-Vannetti Bianca Laura, in: Atti dell’Accademia Rovertana degli Agiati, serie III (1900), 2, pp. 107–144.
Un'immagine ancora diversa di Bianca Laura Saibante è offerta da un manoscritto conservato nella Biblioteca Civica G. Tartarotti di Rovereto. [1] Si tratta di una bozza per una nota biografica, anonima e non datata, ma presumibilmente scritta poco dopo la morte di Saibante, avvenuta nel 1797. In questo manoscritto non si dà particolare peso alla funzione di madre. Il focus su Saibante come letterata è invece preponderante e costruito in modo interessante: che si fosse occupata di questioni femminili non viene nemmeno menzionato. L’interesse principale è rivolto invece ai suoi scritti stampati e al suo talento nella “toscana favella”. Saibante inoltre appare inserita in un’ampia rete letteraria: viene ricordato che aveva ricevuto molti riconoscimenti anche da celebri contemporanei e che manteneva una corrispondenza con molti, anche grandi, letterati e letterate.
[1] Biblioteca Civica G. Tartarotti Roverto (= BCR), Ms. 72.8, ac. 36 .
Il panorama di storie e immagini possibili su Bianca Laura Saibante può essere ampliato dalle lettere scritte dalla stessa Saibante: esse permettono di osservare alcuni aspetti, come gli stati d’animo o le pratiche quotidiane, che di solito hanno riscontrato poco interesse negli studi a lei dedicati.
L’archivio storico della Biblioteca civica di Rovereto conserva circa una trentina di lettere autografe e minute di Saibante. Coprono l’arco di tempo dal 1752 al 1795 e sono indirizzate a diverse persone, prevalentemente al figlio. Pur tenendo conto che si tratta di ego-documenti che nella forma riproducevano convenzioni stereotipate dell’epoca e seguivano indubbiamente le logiche performative dell’autorappresentazione, queste lettere dovrebbero essere sottoposte a uno studio critico e un’analisi molto più approfondita. Qui, intanto, si può solo accennare alle loro potenzialità come fonte storica, innanzitutto per la vita quotidiana ed emotiva di Saibante.
Cogliamo ad esempio che il suo ruolo all’interno dell’accademia prevedeva anche una funzione nella comunicazione ufficiale dell’istituzione. [1] Incontriamo inoltre una persona che scriveva lettere per incarico del marito troppo impegnato. [2] Purtroppo, non appaiono riflessioni sulla propria attività di letterata se non qualche espressione di (finta?) modestia, secondo cui lei non collocava sé stessa all’interno della Repubblica delle Lettere [3] e riteneva che le sue opere fossero sopravvalutate. [4] In momenti di riflessione retrospettiva emerge a volte una sorta di nostalgia, ma anche un certo autocompiacimento nel rappresentarsi come una letterata suo malgrado prestata alle incombenze casalinghe, ricordando i tempi in cui poteva dedicarsi alla scrittura, mentre poi, diventando vedova, “[la penna] si è cambiata coll'ago […] e con mille seccaggini, che domestiche faccende si chiamano”. [5] Incontriamo anche una donna con problemi di salute [6] e dolori alla mano che la limitavano nello scrivere. [7]
Anche la sua situazione abitativa si rispecchia nelle lettere, non solo tramite l’indirizzo della mittente: viveva principalmente nella casa natale nel centro di Rovereto, tra l’altro sede e luogo di incontri dell’Accademia degli Agiati – con il marito e altri famigliari come il fratello Francesco. In autunno, invece, di solito soggiornava nella tenuta di Isera, in compagnia di un cane [8]; il periodo era apprezzato particolarmente perché in campagna “il tempo è mio”. [9] Stava comunque in stretto contatto con la casa di Rovereto da dove si faceva spedire cose, come ad esempio il cioccolato senza vaniglia. [10] Inoltre, passava del tempo anche nella casa alle Grazie di Sacco vicino a Rovereto. [11]
Già questi esempi fanno emergere le potenzialità delle lettere come fonti: esse necessitano di un’attenta analisi e vanno integrate con i carteggi conservati in altri archivi (Trento, Ala etc.).
Le note rinviano ai documenti originali pubblicati su Internet Archive.
[1] Bianca Laura Saibante (= da adesso in poi BLS) a Marcantonio Zucco, 16.9.1752. BCR, Ms 17.1, ac. 56 ; BLS a Carlo Partini, 30.4.1755, BCR, Ms. 17.6, ac. 87
.
[2] BLS a Clementi Baroni Cavalcabò, 07.1.1753, BCR, Ms 17.4, ac 226 ; BLS a Clemente Baroni Cavalcabò, 28.8.1754, BCR, Ms. 17.4, ac. 288
.
[3] BLS a Luigi Miniscalchi, 5.9.1756, BCR, Ms. 17.5, ac. 73 .
[4] BLS a Giuseppe Luigi Leporini, 2.5.1763, BCR, Ms. 7.36, ac. 91 ; BLS a Clementino Vannetti, 3.11.1784, BCR, Ms. 7.30, ac. 86
.
[5] BLS a Saverio Bettinelli, 25.3.1781, BCR, Ms. 7.5, ac 48 . Una simile rassegnazione di una donna annoiata da occupazioni domestiche si evince anche in: BLS a Francesca Roberti Franco, agosto 1778, BRC, Ms. 7.5, ac. 12
.
[6] BLS a Clementino Vannetti, 13.11.1784, BCR, Ms. 7.30, ac. 83 .
[7] BLS a Clementino Vannetti, 29.10.1783, BCR, Ms. 7.23, ac. 46 ; BLS a Clementino Vannetti, 16.10.1785, BCR, Ms. 7.23, ac. 64
, BLS a Clementino Vannetti, 18.10.1785, BCR, Ms. 7.22, ac. 62
; BLS a Clementino Vanetti, 10.11.1788, BCR, Ms. 7.31, ac. 191
.
[8] BLS a Clementino Vannetti, Giovedì santo 1781, BCR, Ms 7.25, ac. 128 .
[9] BLS a Francesca Roberti Franco, agosto 1778, BRC, Ms. 7.5, ac. 12 .
[10] BLS a Francesco Saibante, 24.9.1766, BCR, Ms. Ms. 7.46, ac. 136 .
[11] BLS a Clementino Vannetti, 12.11.1785, BCR, Ms. 7.23, ac.73 .
Perché vale la pena pubblicare dieci testi brevi in prosa di Bianca Laura Saibante?
Perché lo scopo del Progetto “Ecoltura” è quello di portare alla luce documenti ancora nascosti negli Archivi del territorio. Ma accanto a questo valore documentale, esiste anche il valore culturale degli inediti. I testi della Saibante mostrano infatti la funzione civile della letteratura italiana del Settecento. Saibante è una scrittrice che sceglie i modelli di Petrarca e Boccaccio per affermare l’italianità del territorio dove vive: la lingua italiana, il genere della novella, la struttura dei racconti di beffa e di morale dichiarano senza esitazione l’appartenenza alla tradizione della penisola, ma mostrano anche una buona capacità di muoversi nel tempo e nello spazio: dai luoghi dell’antichità biblica e greco-latina (Israele, Atene e Roma) al mondo contemporaneo, tra Milano e Vienna, la Germania e il Veneto, a significare la ricchezza di una cultura ampia e solida nella complessità di una zona di confine.
Le novelle si leggono manoscritte nell’autografo intitolato Novelle, cicalate, lettere accademiche, catalogato BCRov con segnatura 5.23; esso è rilegato in pergamena con misure 23,9 x 17,1 e consta di pp. 191. Saibante ha lavorato al manoscritto almeno fino al 1766 perché esso contiene la Lettera intorno all’educazione dell’unico figliuolo, iniziata nell’estate del 1765 ed esposta nella tornata accademica degli Agiati del 10 aprile 1766.
Per l’edizione a stampa del 1781 Clementino Vannetti ha tratto da questo codice alcuni testi scritti tra il 1754 e il 1761. I testi destinati alla stampa riportano correzioni, forse per mano del figlio che sono assenti nelle novelle.
Le novelle, numerate dalla 1 alla 8, si leggono alle cc. 5-59: la sequenza è regolare con le variazioni che segnaliamo di seguito:
Una prima trascrizione delle novelle si legge nei manoscritti 127 (per il 1750-1751) e 128 (per la novella del 1752) dell’Archivio dell’Accademia degli Agiati (AARA) che raccolgono gli interventi di tutti i membri dell’accademia (in prosa e in versi, scritti a più mani), divisi per tornate.
Con la speranza che il progetto ALI (Autografi dei letterati italiani, http://www.autografi.net/it/) venga presto esteso al XVIII secolo, le novelle vengono pubblicate nella Libguide che UniTrento ha dedicato al progetto Ecoltura in due versioni: un’edizione iper-diplomatica del documento, resa possibile dalla scansione digitale [1]; e una trascrizione delle novelle che conserva le forme linguistiche originali, anche se lontane dall’uso odierno (doppie, plurali di - cia), ma corregge – senza segnalarlo - evidenti refusi. La punteggiatura è stata mantenuta per quanto possibile ed eventualmente integrata (per esempio inserendo le virgolette) o ammodernata; sono state mantenute le maiuscole e le abbreviazioni dei titoli di cortesia. Integrazioni e omissioni sono inserite tra parentesi quadre.
Le novelle sono state pubblicate su Internet Archive, Wikimedia Commons e Wikisource dalla dott.ssa Laura Sciorati. Ai fini del caricamento sulle succitate piattaforme le novelle I, II e III sono state trascritte da Bernardo Calabrese; tutti gli altri testi da Anna Maria Finetto.
[1] Sulle edizioni iper-diplomatiche in rapporto alla filologia digitale, cfr. P. Italia, Editing Duemila. Per una filologia dei testi digitali, Roma, Salerno editrice, 2020, pp. 65-75.
"Ecoltura" è un progetto di ricerca e di divulgazione. Perciò, dopo avere trascritto e pubblicato i manoscritti inediti di Bianca Laura Saibante, si è scelto di riscriverne alcuni per il pubblico contemporaneo.
L'obiettivo è quello di facilitare la lettura di testi che, in origine, venivano raccontati dall'autrice davanti all'assemblea degli Agiati.
Il metodo della modernizzazione rispetta dunque la funzione originaria delle novelle, scritte per comunicare a un pubblico in carne ed ossa, e non solo per fare esercizio di stile letterario.
Poco tempo fa viveva a Milano un cavaliere, bravo parlatore, ma straordinariamente avaro, che pensava solo ad aumentare i propri beni, e perciò teneva a servizio solo uno staffiere e una domestica.
Risparmiava anche sul cibo: mangiava un’unica volta al giorno poche erbe, due lumache, una frittata di due uova, un po’ di pane e un po’ di vino; come condimento solo aceto per risparmiare. E con tutto questo “ben di Dio” sfamava anche lo staffiere e la domestica. A volte il cavaliere elemosinava sale e luce dal vicino, sempre per non spendere. Quanto agli abiti, faceva pietà. I pochi amici criticavano questa esagerata avarizia: “Ah sì sì, può andare a piedi chi ha un cavallo nella stalla”. Ma lui ribatteva: “Non si vive solo per mangiare, ma si mangia per vivere. E tutti dovrebbero imparare da me a vestirsi modestamente”. In inverno poi, per non bruciare legna, si scaldava al sole. E, quando usciva, raccomandava alla domestica di negare fuoco e acqua a qualunque vicino bisognoso: “non abbiamo nulla”, bisognava rispondere alle richieste. Ogni anno, infine, riempiva di prodotti il granaio e aspettava la nuova stagione per vendere, sperando di guadagnare di più.
Un anno, però, il grano ha da subito un prezzo alto; perché rimandare il guadagno? Eppure il cavaliere aspetta, sicuro di fare maggiori affari in futuro. Ma un giorno un suo castaldo gli porta del denaro e, chiacchierando del più e del meno, benedice la Provvidenza perché il prezzo del frumento è calato di molto. Manca poco che, a quelle parole, il cavaliere svenga per il dispiacere. Partito l’uomo, si chiude in camera, grida, urla e prende la tragica decisione di farla finita.
In camera c’è una travatura, con appesa una forte corda di pelle bovina. Il cavaliere se l’aggiusta a mo’ di cappio e scalcia via lo sgabello su cui era salito. Lo sgabello, cadendo, fa rumore. A quel baccano accorre il servitore, vede il padrone penzolante e, per salvarlo, senza pensarci due volte taglia la corda. Poi si dà da fare per rianimarlo in tutti i modi possibili.
Ma quell’avaraccio, rivolto allo stalliere, sbraita: “Chi mi ha strappato dal riposo?”.
E il domestico: “Dovreste darmi una buona mancia: oltre ad avervi sottratto al disonore, vi ho strappato anche alla morte!”.
Ma l’avaro cavaliere lo guarda storto e risponde: “Vuoi la mancia? Ma io ti dico che devi ripagarmi la bella corda nuova che hai tagliato!”.
Sbalordito il servo, che credeva di essere premiato, conclude: “Maledizione! Tenetevi la mia ricca pensione: sarà sufficiente per farvi comprare un’altra corda che vi impicchi sul serio”. E se ne va alla ventura, giurando di non salvare mai più uomini del genere: far del bene a loro è inutile, come lavare la testa agli asini. La fame dell’oro è davvero una brutta faccenda.
La nostra piccola città di Rovereto, attraversata dal rapido Leno, è sempre stata generosa nell’accogliere gli stranieri. Per questo ed altri suoi pregi spesso l’abbiamo sentita raccomandare molto. E vi voglio raccontare un episodio a questo proposito, accaduto nei nostri tempi. Il protagonista è un Giovane Cavaliere, molto amante dei viaggi. Qui a Rovereto sta molto bene con gli abitanti del luogo, in particolare con un Medico dal quale soggiorna e del quale presto diventa amico.
Il Giovane Cavaliere è ricco, educato e bello; ha però un piccolo difetto: soffre infatti di sbalzi di umore che lo rendono fastidioso. Lui lo sa bene e, per prevenire ciò, sta alla larga dalle persone e quando sta male si chiude in camera da solo.
Il primo che si accorge di ciò è il Medico, padrone della casa in cui il giovane è ospitato. Egli soffre nel vederlo patire e si propone di guarirlo; per questo, non appena trova l’occasione, lo prende in disparte, facendo in modo che non li senta nessuno. Allora gli dice: “Caro Cavaliere, io vi stimo tantissimo, ma ho notato che ogni tanto avete dei comportamenti strani. Se io ne conoscessi la causa proverei in tutti i modi a trovare una cura. Ve lo dico perché siamo amici e provo pena nel vedervi in difficoltà”.
Il Cavaliere, contento dell’attenzione, risponde: “Avete già dimostrato tante volte di volermi bene, ma questa volta più di tutte; perciò ora vi racconto il mio male. Non so se esso sia guaribile dal Cielo o da voi, ma mi fido. La causa iniziale è un po’ strana: quando ero bambino avevo l’abitudine di giocare con i miei compagni di scuola. Correvamo con dei bastoni dietro ai pipistrelli e andavamo a caccia di grilli. Mi piaceva metterli in piccole gabbie e portarli a casa. Ma una volta, verso sera, mi capitò di sdraiarmi nel praticello dove catturavo quegli animaletti. Ero più stanco del solito e mi addormentai. I miei genitori non si accorsero della mia assenza perché mi avevano affidato ad un servitore. Il mattino presto, ai primi cinguettii, mi svegliai confuso e con il frinire dei grilli in testa: ben presto mi resi conto che le bestiole erano entrate nel mio capo attraverso le orecchie. E ora continuano a moltiplicarsi tanto che io non spero più di guarire. Mi meraviglio che Voi non li abbiate mai sentiti. Questo è il grave motivo dei miei repentini cambi d’umore”.
Il Medico, ascoltata la strana faccenda, si rende subito conto, da astuto qual è, che si tratta di un male immaginario. Però, invece di smentire il Cavaliere, lo asseconda rispondendo subito: “Li ho sentiti spesso questi grilli, ma avrei scommesso che fossero sotto il focolare o dietro l’armadio. Ma, visto come stanno le cose, cercherò di liberarvi presto da questo fastidio con un rimedio che non vi farà male”. Così gli chiede di stare coricato per due ore sul letto, bendato e fermo in una certa posizione.
Il Cavaliere volentieri accetta, così il Medico si fa portare una benda nera con la quale gli fascia bene la testa. Poi lo unge con un unguento di erbe e vicino alla testa gli pone un piatto fondo con acqua profumata e con grilli di diversa misura. Ovviamente il Cavaliere non vede niente di quello che il Medico sta mettendo vicino a lui. Poi il Medico ordina al giovane di stare fermo e lo chiude nella stanza: ”Ecco qui il modo per tirarvi fuori quelle bestiacce dalla testa”.
Passano le due ore prescritte e il Medico torna verso la camera del Cavaliere, chiedendo al giovane se sta dormendo. Ma il Cavaliere risponde che non ha chiuso occhio perché i grilli hanno saltato più che mai nella sua testa. Allora il Medico, serio e solenne, dice che tocca a lui rendersi conto della faccenda. Si mette sull’enorme naso un paio di occhiali, si avvicina al letto e prende il piatto in mano. Manifestando grande stupore grida: “Miracolo, miracolo! Ma come avete fatto a vivere fino ad oggi? Mannaggia! Grilli, tanti grilli, sentite, guardate!”.
A quel baccano accorre anche la moglie del Medico e si mette a sua volta a strillare “Grilli! Grilli!”. Così il Cavaliere si toglie la benda dagli occhi, salta giù dal letto e vede il piatto colmo di grilli. Allora è davvero sollevato e felice. In mezzo a tanta gioia si rivolge al Medico con queste parole: “Caro Medico, avete visto quanti grilli avevo in testa? Adesso sì che mi sento un altro grazie al vostro aiuto”. Lo prende per mano e dice: “Quanto vi sono debitore! Gli altri medici o non mi credevano o dicevano che era un male strano o forse non ne avevano mai sentito parlare perché conoscevano poco il loro mestiere”. Lo ringrazia mille volte, tira fuori dalla tasca un bellissimo orologio d’oro e glielo regala.
Il Medico, contentissimo, continua a lodare il Cavaliere che ha patito una così lunga sofferenza e si prende il dono. Quando il giovane parte, il Medico racconta il fatto ai suoi amici che, insieme, ridono di gusto.
Carletto de Miorandi ama andare da solo a Verona, a piedi, per comprare materiale da lavoro o per divertirsi. Così, un mattino si alza molto presto, si mette il giubbetto della festa e cammina, cammina finché raggiunge la città. È già notte fonda quando arriva a un’osteria che ha solo cinque posti per dormire; e già questi ci stanno a stento, costringendo l’oste a coricarsi con moglie, figli e domestica.
Carletto si mette a bussare così forte da svegliare i morti, oltre agli ospiti della locanda. Solo l’oste, che non ha voglia di alzarsi dal letto, non si preoccupa dell’uomo che assorda il vicinato. Ma la moglie, alla fine, prova compassione per il forestiero, si arrabbia con Giannetto (così si chiama il marito) e lo spedisce a vedere chi è alla porta.
Giannetto, malvolentieri, si infila le brache, si affaccia alla finestra e chiede chi fa tanto baccano.
Carletto, finalmente sollevato, dice: “Che Dio vi benedica, sto solo cercando ospitalità”. Ma Giannetto informa il forestiero che non ha posto. Allora Carletto chiede almeno un boccone da mangiare. L’oste lo fa entrare e Carletto comincia a chiacchierare. Ma Giannetto ha solo una gran voglia di andare a letto e vuole fare in fretta: “Caro amico, adesso che avete mangiato, come pensate di trascorrere la notte visto che non c’è alcun letto libero? Infatti in una stanza dormono due mercanti, nell’altra due signori ed in questa poi, che è la migliore, c’è l’Arciprete di Lazise, che è mio Compare, uomo raffinatissimo, che ama più di tutti gli altri la solitudine e la pulizia”.
“Buon per me” pensa allora Carletto, furbo nel rovinargli i piani. Ed esclama: “Ma non mi dire! Qui c’è il mio Arciprete? Che bello! Sarebbe un affronto se non passassi da lui, visto che è un mio grande amico! Ne avrebbe a male se sapesse che sono stato qui e non gli ho detto niente. Vi prego di portarmi da lui, che molto volentieri mi darà un angoletto del suo letto”.
Ma Giannetto sorridendo risponde: “Non credo che il prete sopporti di dormire con qualcun altro. Lo conosco bene; pertanto io non vi aprirò di certo; ho ben chiaro quali conseguenze avrei”.
Ma Carletto non si dà per vinto e si dilunga sulla sua amicizia con l’uomo di chiesa. Alla fine l’oste, stremato, per toglierselo dai piedi, dice: “Se tu, Carletto, sarai accolto nel letto dell’Arciprete, ti offrirò la cena che hai appena consumato”; e Carletto, a sua volta: “Io ci scommetto tutto quello che mi sono portato in viaggio”. Dopo questo accordo l’oste lo accompagna nella stanza dell’Arciprete.
Carletto entra, si spoglia, zitto zitto si corica. Ma l’Arciprete, che ha il sonno leggero, a quel lieve movimento del letto si sveglia e grida impaurito: “Chi è lo sfrontato che si stende nel letto vicino a me?”. E Carletto risponde: “Dio vi difenda dalle mie mani”. E il prete: “Ma sei forse un delinquente? Oh Dio! Chi mi può proteggere?”. E Carletto di rimando: “Io sono un ministro della Giustizia e sono appena arrivato stanco da un paese lontano, dove ho dovuto impiccare un uomo. Per questo non abbiate paura di me, ma compatitemi e lasciatemi dormire qui, che non ho trovato altri posti”.
Potete immaginarvi come rimane l’Arciprete che corre dall’oste a raccontargli per filo e per segno l’accaduto. Carletto allora, contentissimo, chiude la porta e torna al letto, dove dorme un sonno profondo fino al mattino seguente. Il giorno dopo attende che il sole faccia capolino alla finestra per vederci meglio. E quando è sicuro che l’Arciprete se ne è andato, va dall’oste che ricorda bene le parole del religioso. Carletto lo ringrazia per l’ospitalità e Giannetto lo saluta in fretta e furia, credendo di avere davanti un giustiziere: pazienza per la beffa, la scommessa e perfino per la stima dell’Arciprete. Una volta ritornato a casa, Carletto ride di gusto con la moglie della dabbenaggine dell’oste.
Giovane e bella come una pietra preziosa, Camma è una donna ateniese che ama un giovane simile a lei, di nome Sinatto.
Purtroppo Camma viene notata e desiderata da Sinorige, tiranno invidioso e malvagio che, irritato dalla fedeltà della donna, fa uccidere Sinatto e prosegue l’opera di seduzione: si fa vedere pomposamente vestito, cavalca con maestria preziosi destrieri… ma niente: nessuna impresa riesce a smuovere l’animo della virtuosa Camma.
Allora Sinorige decide di chiederla in sposa attraverso i familiari di lei. Camma oppone resistenza ma, alla fine, vinta da invocazioni e intimidazioni, cede. “Cari fratelli, voi mi costringete con suppliche, minacce, preghiere, insomma con la forza, a fare ciò che mai avrei voluto fare. Va bene, ma ad un patto: che mi accompagniate prima del nuovo matrimonio, a fare un sacrificio a Sinatto perché alla fine si dimostri contento per le mie nuove nozze”. Sentite queste parole, tutti si tranquillizzano, promettono di esaudire questo desiderio e avvisano Sinorige.
Felice e impaziente, il mattino seguente Sinorige si reca al tempio di Diana, vestito di tutto punto. Qui trova Camma elegante e ingioiellata, bella come il sole. Già le vittime sacrificate bruciavano sugli altari e i sacerdoti svolgevano i loro riti. Mancava solo che una damigella porgesse alla sposa la rituale bevanda, secondo l’uso greco. Ma Camma prende un’altra tazza, dove aveva già versato un liquido velenosissimo. Coraggiosamente ne beve un sorso e porge la coppa a Sinorige che, tranquillamente, finisce il contenuto. Non sapeva, misero, che stava bevendo ciò che lo avrebbe fatto morire!
Finalmente contenta, Camma si rivolge alle statue degli dei ed esclama: “Oh dei, custodi della mia innocenza, ora ho vendicato l’anima del mio Sinatto e vi sacrifico l’anima malvagia del suo uccisore. Vi prego solo di una cosa: fate in modo che lui muoia prima di me perché io lo possa vedere. Poi morirò contenta. E tu, cattivo tiranno, fatti preparare non il letto nuziale, ma la tomba; e va’ con le altre anime malvagie. Vedrai che gli dei non permetteranno che io muoia prima di te”. A queste deliranti parole, potete immaginarvi lo stato d’animo del tiranno. Sbigottito, Sinorige sta già male, chiede con urgenza farmaci opportuni, ma niente! Dal matrimonio passa al funerale.
La notizia viene subito comunicata a Camma, la quale, ormai sollevata, dona addirittura una gemma preziosa a chi l’ha informata della morte del tiranno. La donna si sente morire, ma trova la forza per pronunciare queste parole: “Muoio dopo averti vendicato; ora vola la mia anima e tu accoglila sapendo che è quella della tua fedele sposa. Come le nostre esistenze sono state avvinte in vita, così possano vagare unite nei campi Elisi: e auguriamoci che mai la cattiva invidia tenti ancora di sciogliere il profondo legame che c’è tra noi. Come sacrificio ricevi lo spirito del superbo tuo nemico, ti mando io la sua perversa anima”; aprendo le braccia come se stesse per stringere Sinatto, pallida in volto e per questo più bella del solito, ordina di essere sepolta vicino al marito e dolcemente muore.
Pochi anni fa, in una città della Germania molto rispettosa verso il genere femminile, viveva una gentildonna chiamata Sofia, ricca e molto seria. Era parecchio anziana, con la fronte rugosa e pochi capelli, bianchi bianchi. Sofia era rimasta vedova molto presto di un marito al quale voleva bene; era anche senza figli. Aveva perciò ereditato molti beni. Trascorreva una vita lieta passando bene le sue giornate, ospitando a casa gentildonne e cavalieri e, in amicizia reciproca, andando da loro. Con questi condivideva la passione per il gioco, il massimo dei divertimenti, secondo lei; ed era in questo quasi sempre fortunata.
Un giorno Sofia riceve l’invito di una parente che riunisce tanti cavalieri e tante signore, sia dalla città che da fuori, per giocare. Sofia viene messa al tavolo con Corrado, un italiano giovane e furbo. La donna perde molto denaro ma resta allegra perché in città esiste una consuetudine per cui, anche se gli uomini vincono al gioco, rinunciano al guadagno. Sembra una caricatura, tanto è contenta e rugosa! Corrado è sbalordito e, quando è stufo di giocare con lei, tira a sé tutta la cifra vinta, se la mette in tasca, saluta gentilmente e se ne va.
Sofia è sorpresa e disgustata e comincia a dirne di tutti i colori contro Corrado: non conosce la buona creanza, non sa trattare le donne del suo rango. Avendo giocato con tantissimi uomini, Sofia non ne ha mai trovato uno così maleducato da intascare il suo denaro.
In mezzo alla compagnia c’è un tale che si prende a cuore il ragazzo e il suo errore: il mattino seguente va da Corrado e gli racconta tutto per filo e per segno. Corrado ascolta e, sorridendo, replica all’amico:
“Sappiate, caro Signore, che conosco molto bene l’abitudine della vostra città, cioè che non si riceve denaro da una donna, anche se si vince. E certo, se avessi giocato con una signora, avrei scrupolosamente rispettato questa usanza; ma io non ci ho pensato, perché non ho avuto a che fare con il genere femminile. Considero infatti la persona con cui ho vinto un cavaliere perché non sembra più una donna. Il tempo implacabile ha tolto al suo volto ogni colore, ogni grazia; c’è ora solo un pallido ricordo di quello che era un tempo. Per questo non ritengo di averle fatto alcun torto: l’ho solo trattata da Cavaliere. Andate pure da lei a spiegarle il mio comportamento. E non vi ho detto questo per svergognarla o deriderla; anzi, la stimo tantissimo”.
Quanto rimanesse meravigliato l’amico dell’espediente trovato da Corrado per togliersi da quello spiacevole impiccio, voi potete ben immaginarlo. E dopo averci riso su e aver affidato al cielo questa prontezza di spirito del giovane, egli torna da Sofia e le racconta tutto.
Sentendo che Corrado la ritiene un cavaliere, la donna è contentissima: da quel momento si fa chiamare con un nome maschile e rifiuta quello vecchio. Non solo: finché Corrado resta in città, lei lo accoglie con i massimi onori a casa, considerandolo degno di grande rispetto.
Mi è accaduto un fatto così simpatico che stento a credere a me stessa. Ma ne sono testimone; dunque prestatemi bene attenzione e ve lo racconterò.
Conoscete bene la mia abitudine: quando ho voglia mi piace starmene sola soletta in camera, a volte dormo, a volte faccio lavori da donna con l’ago e il fuso o mi prendo qualcuno dei libri trascurati e impolverati che mi circondano.
Ogni tanto mi avvicino alla penna e faccio quello che Sua Eccellenza la penna impone perché ho eliminato ogni occasione di litigio e stimo pace e quiete più preziose dell’oro.
Un giorno, mentre mi avvicino alla penna per scrivere, sento un certo chiacchiericcio: subito mi metto all’ascolto di nascosto per capire quali persone stessero litigando. Ma alla fine, essendomi avvicinata al tavolino, udite udite… la penna litigava col calamaio che stava tentando di cacciarla via. Quel brontolone le dice: “Va’ via di qua, rompiscatole! Non vedi che ormai sono secco e distrutto? e non vedi che in me non c’è più ombra di inchiostro? Sarai contenta adesso che da me non puoi più spremere niente. Voglio che diventi magra e smunta come una vecchietta e per questo sarai costretta a stare negli angoletti delle immondizie dove sarai gettata dalla nostra padrona con tua vergogna eterna. Ti dico io che allora ti verrà in mente il povero calamaio e amaramente tante volte ti dirai - oh, se fossi stata più discreta non sarei qui”. Lui voleva andare avanti a blaterare, quando la penna, nauseata da questo predicozzo, lo interrompe pacatamente dicendo: “Caro fratello, è stato il caldo eccessivo, non io, a seccarti tutto l’inchiostro; ora, se dico la verità, sia giudice la nostra padrona, che ci ascolta tutti e due e che dirà chi ha torto”.
Allora, da giudice, assumo un’espressione seria e compiaciuta, mi metto sulla sedia e con voce stentorea dico al calamaio: “Tu, che hai fatto una così terribile guerra alla penna, tua sorella, sappi che nelle tue disgrazie lei c’entra poco; la colpa ce l’ho tutta io perché, quando mi viene l’estro di scribacchiare sulla povera carta, ti strizzo tutto per ricavare fino all’ultima goccia d’inchiostro. Per questo la tratti da colpevole a torto. E poi mettiamo il caso che abbia ragione tu: pensi che saresti lo stesso senza la penna? Certo che no: saresti a poltrire nell’eterna dimenticanza con tantissimi altri calamai disoccupati, dove poco o niente ti servirebbe essere pieno d’inchiostro, come quei fiumi sotterranei gonfi d’acqua che corrono verso il mare senza che nessuno li veda”.
Alle mie parole la saggia penna tace contenta, ma il calamaio continua a brontolare. All’improvviso sono piacevolmente sorpresa da un rumore proveniente dai campi che mi fa pensare a quanto sia gradevole la vita agreste delle donne nell’autunno pieno di frutti.
Così mando la penna a viaggiare sul dorso dell’uccello da lei prescelto, faccio un baciamano al calamaio e lo rinchiudo nello scrittoio dove ora sta tranquillamente dormendo e non lo sveglia neanche una tromba di guerra fragorosa o uno strepitante tamburo. Ed io, rifacendomi al Diritto per cui “tertius gaudet inter duos litigantes” ovvero “tra due litiganti il terzo gode”, andrò nella giusta stagione in campagna a vendemmiare, dove cercherò di trascorrere un periodo di riposo e, quando sarò ritornata, starò tra voi Agiati, se mi volete, ancora con la penna in mano e col mio calamaio a fianco, di nuovo a scribacchiare novelle o quello che voi vorrete.
Intellettuale, moglie, madre. Bianca Laura Saibante, una donna del Settecento, 28-29 settembre 2023, convegno organizzato dall'Accademia degli Agiati
Presentazione del volume Bianca Laura Saibante Vannetti Sette Novelle, 26 settembre 2023, Biblioteca civica "G. Tartarotti" di Rovereto